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Intervista

«Così ho vissuto la morte di don Gnocchi»

L’amico don Giovanni Barbareschi ricorda le ultime ore di don Carlo, che il 25 ottobre in piazza Duomo l’Arcivescovo proclamerà beato: «Allora la legge vietava i trapianti di organo. Prima di morire lui mi chiese: “Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea a due mutilatini”»

di Giuseppe GRAMPA

7 Luglio 2009

Quando, il 25 ottobre in piazza Duomo, il cardinale Tettamanzi a nome di Papa Benedetto proclamerà beato don Carlo Gnocchi, una sola persona potrà fregiarsi, come nessun altro, della qualifica di “amico” di don Carlo. È don Giovanni Barbareschi, 87 anni, medaglia d’argento della Guerra di Liberazione, l’amico prete che don Gnocchi volle vicino a sé per – sono parole sue – «vivere la sua morte».
Verso la fine del dicembre 1955 la richiesta di don Carlo all’arcivescovo Montini: «Faccia in modo che don Giovanni, prete mio amico, sia esonerato da ogni altro incarico e possa stare con me fino alla morte». Tante volte ho ascoltato da don Giovanni il racconto dell’ultimo mese di vita di don Carlo e ogni volta è sempre un’emozione. Don Giovanni coinvolge il suo ascoltatore in una storia lontana mezzo secolo, ma che ancora commuove fino alle lacrime.

È stato lei ad avvertire don Carlo della sua morte imminente?
No, mi sembrò giusto che questo annuncio così decisivo per ogni uomo e per il credente fosse dato a un prete dal suo Vescovo. Per questo all’inizio del gennaio 1956 chiesi con insistenza che fosse Montini in persona a comunicare a don Carlo la gravità del suo stato. Quando l’Arcivescovo uscì dalla camera di don Carlo piangeva. Entro immediatamente e dico: «Don Carlo, sei una persona importante, fai piangere il tuo Vescovo». Mi risponde: «Non sono importante, sono uno che muore».

Come ha vissuto la sua morte?
Sono stato con don Carlo giorno e notte nel corso dell’ultimo mese, fino alla sua morte: per me è stata l’esperienza più forte e più significativa della mia umana vicenda. Quando la gravità del male fece capire che ormai i giorni erano pochi, don Carlo volle celebrare quella che sarebbe stata la sua ultima Messa. Lui a letto con addosso la vestaglia blu che metteva solo e unicamente nei momenti più importanti, io all’altarino da campo, sul quale c’erano come calice la sua teca e una piccola reliquia di Santa Teresa del Bambino Gesù – oggetti a lui molto cari, perché li aveva sempre tenuti con sé quando era cappellano militare in Grecia e in Russia – e il crocefisso che la mamma gli aveva regalato per la sua prima Messa. «Adesso domandiamo perdono a Dio con le nostre parole», e ciascuno disse le sue parole. Iniziammo con la parola dell’uomo. Leggemmo un passo di Teilhard de Chardin. Gesuita, teologo, scienziato, aveva espresso un desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». Fu proprio così: morì la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955. E don Carlo mi disse: «Io a Pasqua non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Poi volle che leggessi il capitolo 13 della lettera ai Corinti, l’Inno alla carità, e il Vangelo di Giovanni 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone che ama». Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei vivi. Ciascuno ricordò una persona e lui i suoi mutilatini, «la mia baracca». Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma e il papà («non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso»). I commenti li faceva durante la celebrazione. «E poi – disse a me -, e poi il tuo papà». E i preti che avevamo conosciuto, ricordava ciascuno. Terminata la consacrazione, volle che io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te devote latens Deitas. Chiese che venissero ripetute le parole in cruce latebat sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi disse: «Manca ancora qualcosa». Allora gli feci ascoltare Stelutis alpinis, la canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così fu l’ultima Messa di don Carlo.

Nel racconto di quegli ultimi giorni c’è un momento che mette il luce il carattere di don Carlo, fino all’ultimo capace di sorridere: quando ricevette l’Unzione dei malati…
Nei giorni che precedettero la morte parlavamo serenamente di vita e di morte. E stringendomi la mano, don Carlo mi disse: «Vorrei ricevere in piena coscienza l’estrema unzione. Penso che potresti chiamare don Sergio Pignedoli». Monsignor Pignedoli era vescovo ausiliare di Milano e grande amico di don Carlo. Il cappellano della clinica, monsignor Pariani, consigliò al vescovo di procedere al rito per breviorem, cioè con una sola unzione sulla fronte.
Don Carlo si oppose e chiese il rito completo in tutta la sua gestualità, cominciando dai piedi, perché «sono i piedi che mi hanno portato a casa dalla Russia». Lo disse, ricordo bene, in milanese e aggiunse le parole poetiche dell’amico David Turoldo: «Sono i sensi il tempio di una incrollabile fede».

Prima della morte don Carlo compì un ultimo gesto di singolare generosità: il dono delle sue cornee a due mutilatini ciechi. Come è maturata quella decisione allora non consentita dalle leggi?
Don Carlo sapeva bene che le leggi italiane con consentivano trapianti d’organi. Eppure proprio qualche giorno prima di morire mi chiese: «Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea a due mutilatini. Se ti senti, vai a cercare un oculista che accetti e si tenga a disposizione». Era, allora, un atto insolito, non accettato dalla legge e disputato tra i teologi moralisti. Proprio per questo mi colpì l’elogio che la domenica successiva – 4 marzo – Pio XII fece di questo atto, nel discorso dell’Angelus.

Don Giovanni, lei ha avuto il singolare privilegio di raccogliere l’ultimo respiro di don Carlo. Dopo tanti anni ne custodisce certo nitido il ricordo. Vuole raccontarci quel trapasso?
Il ricordo del giorno della morte di don Carlo è oggi, come allora, vivissimo in me. Era sotto la tenda a ossigeno, diceva solo qualche parola e solo a me. Alla mattina alle 6 chiese il piccolo crocifisso che sua mamma gli aveva dato per la prima Messa e volle che venisse appeso sulla tenda a ossigeno per poterlo vedere sempre. Lo appendemmo con un cerotto. Don Carlo lo guardava continuamente e gli parlava con gli occhi. Nel pomeriggio, verso le 16, con la mano mi fece capire che voleva dirmi qualcosa. Sollevai la tenda un momento, mi avvicinai a lui. Mi strinse forte la mano e mi disse: «Grazie di tutto quello che hai fatto per me».

Furono le ultime parole di don Carlo all’amico prete…
Verso le 18.15 respirava con molta fatica. Lo guardavamo senza poter fare nulla per lui, isolato nella sua tenda. A un certo punto, con sforzo straordinario, si appoggiò con i pugni al materasso ed esclamò con voce chiara: «Vieni, vieni!». Strappò il crocifisso appeso col cerotto alla tenda ad ossigeno, lo baciò e perse così conoscenza. Ho rivissuto quel momento alcune settimane fa, quando ho assistito alla ricognizione dei resti mortali di don Carlo, una prassi prevista dalla Chiesa in occasione della beatificazione. Quel piccolo crocifisso lo avevo collocato io stesso sul corpo di don Carlo e con emozione lo abbiamo ritrovato tra i suoi resti mortali.