1. C’è altro
L’irrompere della malattia in una vita sana, dinamica, talora persino frenetica; in una vita intensa, interessante, ricca di relazioni e di responsabilità ferma tutto. Quando tutto si ferma può succedere che si aprano orizzonti inesplorati, che una persona sia chiamata a inoltrarsi in mondi di cui non sospettava l’esistenza. Il mondo si vede da un altro punto di vista. Quello che sembrava ovvio si rivela precario. Quelle relazioni che sembrano fare la sostanza della vita possono dissolversi in un istante. Il posto in cui ci sembrava di essere insostituibili è occupato da un altro. I titoli di cui si era orgogliosi non servono a niente, non danno nessun conforto.
La malattia, quando è grave e prolungata, fa intuire che c’è dell’altro, oltre quello che riempie abitualmente la vita, i pensieri, le parole. C’è dell’altro. Capita che affiorino domande d’altri tempi. In questo “mondo altro”, di cui tutti credono di sapere tutto finché non sono costretti ad abitarlo, può affacciarsi la questione su Dio e possono ritornare in mente le parole della preghiera. Ecco il significato della cappellina dell’ospedale.
2. La spiritualità della cura
Con frequenza si parla della spiritualità della cura, cioè dell’importanza della dimensione spirituale nel percorso di cura. Risulta che i malati non hanno bisogno solo di medicine e di buone maniere, di interventi competenti e di buona organizzazione aziendale. I malati hanno bisogno di spiritualità, come si dice. Cioè: la terapia trae vantaggio da un animo in cui c’è una speranza, da un supporto che aiuta a farsi coraggio, a vincere la tentazione dello scoraggiamento e della depressione.
La spiritualità assume forme diverse ed è alimentata da diverse competenze, dalla psicologia al counseling, alla religione, alle diverse pratiche di devozione. Perciò la proprietà dell’ospedale, riservando degli spazi per la preghiera, per le pratiche religiose non fa un favore alle religioni, alle Chiese. Offre, piuttosto, un aiuto di cui molti ricoverati hanno bisogno, anche se non trovano le parole per dirlo, anche se non sanno con quali segni e pratiche si possa vivere questa dimensione spirituale.
3. Il buon pastore
Noi benediciamo questo luogo, la Cappella Sant’Ambrogio, affidata alla Chiesa Cattolica, alla Diocesi di Milano, perché noi diamo un nome a questa vicenda di persone che nel tempo della malattia si pongono domande inedite. Noi professiamo la persuasione che queste domande, queste speranze, queste paure, dispongono ad ascoltare, ad invocare, a sperare che ci sia una parola per ciascuno. Cerchiamo una parola vera, non solo un autoconvincimento; una parola più affidabile e più concreta del mutuo aiuto.
Noi professiamo la persuasione che in quel momento della prova ci sia una voce riconoscibile, un invito convincente e promettente. È la voce del Buon Pastore. Il Buon Pastore che conosce le sue pecore, e rivolge a loro la parola amica, la rivelazione che alimenta la speranza invincibile. Il Buon Pastore – per usare l’immagine del Vangelo – sa di avere altre pecore, che sono “fuori dal recinto”: ma di loro si prende cura come di coloro che sono dentro. La presenza di Gesù non è quella del giudice che divide chi sta dentro e chi sta fuori. È invece la presenza che compie la volontà del Padre, che vuole che tutti siano salvati.
Quando la malattia impone una sosta, propizia una riflessione su di sé, qui in cappella, qui in ospedale si può forse avvertire la voce delicata, discreta, benevola che chiama alla speranza.

