1. Le inerzie
Voglio proporre qualche spunto. Si tratta di un semplice punto di vista, senza la pretesa di presentare un’interpretazione, una lettura scientificamente fondata.
“Inerzia” è la parola che mi è venuta in mente nel ripensare a come sono cambiati il mondo e la Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. In questi anni molte cose sono mutate nella Chiesa: ad esempio i numeri della partecipazione dei fedeli, la percezione dei valori e della normatività degli adempimenti riguardanti le forme celebrative, eccetera.
1.1 L’inerzia del ruolo determinante del prete
Un aspetto che a me, tuttavia, sembra persistere in modo costante è proprio una certa inerzia nel ritenere determinante il ruolo e il potere del prete – specialmente se parroco – all’interno della comunità. Certo, la vita del presbitero e le forme del suo ministero sono molto mutate, eppure tale aspetto rimane – almeno per quanto a me è dato di percepire – decisivo. Il prete continua a determinare la vita della comunità: ciò che il prete approva, si fa; ciò che il prete non approva e non incoraggia, non si fa. Tale inerzia è spesso favorita dalle attese e dalle pretese della gente e dalla tendenza di molti credenti a sottrarsi alla responsabilità e alla corresponsabilità.
Nell’evidente riduzione di numero del clero, il fatto che decisioni, discernimento, organizzazione della vita della comunità siano affidate al prete, espongono lui all’esaurimento delle forze e la comunità – insoddisfatta di quanto il prete fa, non fa o dovrebbe fare – ad un persistente malumore.
Tale inerzia sollecita la necessità di una onesta riflessione critica sul modo in cui deve essere esercitato il potere all’interno delle comunità cristiane. Riconosco che in questo contesto il termine “potere” può risultare molto antipatico, ma lo utilizzo di proposito, affinché ci provochi a pensare e a non vivere soltanto di retorica devota quando parliamo del prete o di immagini ideali di comunità.
1.2 La rilevanza dei numeri
Registro poi un altro genere di inerzia: le statistiche mi sembrano diventate più importanti del Vangelo, delle proposte del Papa e dei Vescovi. Le statistiche decretano il declino ineluttabile della civiltà parrocchiale, della rilevanza della Chiesa sul territorio, l’inarrestabile invecchiamento dei fedeli che frequentano.
Le statistiche si presentano con l’autorità perentoria dei numeri e inducono ad un’incorreggibile ed insopportabile inerzia, quasi pretendendo la necessità di rassegnarsi di fronte al declino della Chiesa, delle comunità, della civiltà parrocchiale. Le statistiche sembrano proporre una lettura indiscutibile di quanto sta succedendo; perciò, in un simile clima di rassegnazione obbligatoria, ai preti non rimane che cercare di sopravvivere, di portare avanti un’esistenza mortificata e scontenta.
Il malumore ed un certo diffuso atteggiamento di insoddisfazione, che mi sembra di rilevare nella Chiesa, sono probabilmente determinati dal senso di impotenza di fronte al declino.
2. Le caricature
Del prete vengono inoltre proposte – forse talvolta anche con intenti benevoli, forse per incoraggiare – letture e semplificazioni che a mio parere risultano abbastanza caricaturali.
2.1 Il prete indaffarato
Una prima caricatura è quella del prete indaffarato, sempre di corsa, sempre al telefono. Soggiogato dalla frenesia per riuscire a far fronte a tutte le richieste ed alle molte prestazioni che gli competono, un tale prete risulta sicuramente molto utile alle comunità a cui è destinato, ma non testimonia una vocazione desiderabile.
2.2 Il prete incasellato in un “sacro convenzionale”
Un’altra caricatura è quella del prete incasellato nel sacro, che esibisce cioè in modo eccessivo i caratteri sacrali della liturgia, del vestire, dell’agire, del gesticolare, del discorrere.
2.3 Il prete “di strada”
Una terza interpretazione caricaturale mi pare sia quella di chi esalta il cosiddetto “prete di strada”, presentandolo trasandato nel vestire, disordinato negli orari, incline a esibire le proprie imprese ed a marcare la propria differenza rispetto ai confratelli. Alcuni affermano: “Ecco, questo è un vero prete! Non come gli altri…”. Si idealizza così un certo modo di vivere il ministero, talvolta citando pure a sproposito la definizione che Papa Francesco attribuiva a coloro che hanno “l’odore delle pecore”.
2.4 Il prete televisivo
Il prete è un personaggio di cui si parla volentieri e spesso fa notizia, soprattutto quando entra nei programmi televisivi, col rischio di diventare una specie di macchietta.
È interessante l’ininterrotta popolarità di film come “Don Camillo” e “Don Matteo”. Il prete macchietta è gradito: la gente guarda volentieri a simili rappresentazioni del prete.
3. Il “contesto missionario”
Prendendo ora in considerazione l’espressione “contesto missionario”, presente nel titolo di questo Convegno, comincerei con l’osservare che viviamo oggi in una società molto diversa da quella in cui io, per esempio, ho cominciato a fare il prete. È evidente un cambiamento d’epoca. Chiediamoci dunque: può tale cambiamento contribuire a dare nuova forma all’esistenza presbiterale? Noi che siamo sulla strada – “strada facendo”, come sottolinea ancora il tema del Convegno – verso quale identità di prete stiamo camminando?
La mia impressione è che da molte delle riflessioni, proposte, indagini circa quale figura di prete abiterà il futuro della Chiesa, traspaia un desiderio di aggiornamento più ispirato ad una sorta di accondiscendenza ai tempi che alla profezia del Vangelo.
Alcune esigenze sono sicuramente indiscutibili: l’opportunità di abitare i social, l’insistenza su un atteggiamento di ascolto, la generosa sollecitudine nel dedicarsi al “pronto soccorso” spirituale e psicologico… C’è un indubbio valore evangelico nel condividere i sentimenti di Gesù, facendosi prossimi ad ogni uomo e ad ogni donna. Una tale insistenza sull’importanza di accogliere, di essere comprensibili e comprensivi, non deve però portarci a diventare reticenti circa il contenuto essenziale del kerygma.
Un esempio evidente è dato dall’enfasi che spesso viene posta sull’importanza dell’ascolto: il prete deve ascoltare, la Chiesa deve ascoltare… La capacità di ascolto nell’incontro con la gente rappresenta sicuramente un tratto di Gesù da imitare. Se però questo spinge a tacere l’invito alla conversione, c’è il rischio di proporre a chi viene a bussare alla nostra porta più una cura palliativa che l’annuncio di una salvezza.
4. Qualche spunto per lo splendore. Un punto di vista
4.1 La missione principio di giovinezza della Chiesa
Cosa può ispirare la vita della Chiesa e del prete? Il principio della missione.
La missione non diventa di attualità perché diminuiscono i battezzati e i praticanti. Non è, per così dire, un sussulto di fronte alla necessità di recuperare il terreno perduto. La missione è obbedienza al Signore che manda i suoi discepoli; è mettersi a servizio di ciò che Dio vuole: che tutti gli uomini siano salvati. Ecco il principio della missione e il motivo della nostra docilità al Signore.
Non basta dunque constatare che la realtà è cambiata, che la presenza della Chiesa è irrilevante e i preti in numero sempre minore, per affermare che ci troviamo in un contesto missionario. “Contesto missionario” – tema generale di questo Convegno – è qualunque posto in cui siano presenti dei discepoli che obbediscono al Signore.
E cosa significa “missione”? Anche tale parola mi sembra venga troppo usata, ma poco pensata. Vorrei perciò incoraggiare una riflessione sul significato del termine “missione”. Io lo vedo caratterizzato da due dinamiche che, abbastanza sbrigativamente, definirei “dinamica dell’attrattiva” e “dinamica dell’apostolato”.
4.2 La missione nella dinamica dell’attrattiva
La Chiesa è missionaria perché il suo modo di vivere risulta attraente. Gesù stesso prega affinché il nostro modo di amarci gli uni gli altri testimoni di per sé che siamo suoi discepoli; affinché sia il nostro amarci a parlare di lui.
Questo richiede che ci dedichiamo a costruire comunità in cui risultino evidenti i tratti belli della vita evangelica: la letizia, la gratitudine e la gioia di essere cristiani.
Credo che il prete abbia anzitutto tale missione: prendersi cura di una vita di comunità che sia veramente attrattiva. Il prete non deve fare tutto, non deve raggiungere tutti; è invece chiamato, insieme agli altri fedeli, a costruire la città posta sul monte, ad accendere una piccola luce capace di orientare il cammino di coloro che cercano la salvezza.
Per vivere la dinamica dell’attrattiva, i discepoli devono prendersi cura della vita della Chiesa, edificarla così come il Signore la vuole. E credo che il prete abbia anzitutto il compito di mettersi a servizio della bellezza della comunità.
4.3 La missione nella dinamica dell’apostolato
La seconda dinamica è quella dell’apostolato, che consiste nel portare il Vangelo e i valori del Vangelo al di fuori dello stretto contesto ecclesiale, negli ambienti quotidiani dell’esistenza. È responsabilità di ogni discepolo annunciare il Vangelo in ospedale, in ufficio, a scuola, nel condominio, eccetera.
Coloro che, uniti nella comunità, hanno partecipato alla celebrazione della Pasqua del Signore nell’Eucaristia e custodiscono in sé il fuoco dello Spirito, si sentono inviati a portare anche agli altri la Buona Notizia.
Costruire una Chiesa bella significa dunque dar vita a comunità di persone contente di essere cristiane e desiderose di condividere la loro gioia con coloro che non frequentano le parrocchie. Mi pare insomma che sia da promuovere soprattutto una missione laicale per raggiungere la gente del nostro tempo. L’apostolato deve essere un’attenzione e un impegno costante di tutti i cristiani. Possiamo anche parlare di ministerialità diffusa: l’assunzione di servizi utili alla vita della Chiesa non deve ridursi a pochi ruoli istituiti. Ai laici vanno attribuiti compiti e responsabilità dentro la comunità cristiana, affinché aiutino a renderla bella e accogliente. A tal fine non mi pare necessario moltiplicare le istituzioni di ministeri. Serve piuttosto animare tutti i credenti, in modo che la gioia di essere cristiani possa irradiarsi. Testimoniamo quanto siamo grati di essere stati salvati e di avere una strada di salvezza da indicare a ogni persona che voglia percorrerla.
Questo era uno spunto che mi premeva consegnarvi: la missione come principio di giovinezza della Chiesa e, in essa, la responsabilità specifica del prete.
5. La riforma del clero
5.1 L’identità del prete come appartenenza al clero diocesano
Sebbene la vocazione presbiterale abbia ricevuto luce dal magistero del Concilio Vaticano II, in seguito è stata più volte riproposta la questione dell’identità del prete. Personalmente ritengo che tale identità non venga definita da ciò che il prete realizza, dalle responsabilità di cui deve farsi carico, quanto dalla sua appartenenza al clero.
Un immaginario forse ancora troppo diffuso vede nel prete il custode del campanile, una figura solitaria che garantisce la presenza capillare della Chiesa in un determinato territorio. Credo che una tale prospettiva debba essere superata. Si impone infatti ormai il recupero e la scoperta della priorità della partecipazione del prete alla missione apostolica di cui il vescovo è garante nella Chiesa locale. L’Ordinazione Presbiterale non determina anzitutto la destinazione a un campanile, quanto l’introduzione nel clero di una Diocesi, composto da preti e da diaconi permanenti. La figura – o piuttosto la caricatura – del prete dell’epoca moderna, post-tridentina, viene identificata con quanto egli può o deve fare: consacrare, assolvere, predicare… Si tratta evidentemente di servizi irrinunciabili, che bisogna però integrare all’interno di una teologia del Sacramento dell’Ordine: l’Ordinazione è inserimento nel presbiterio di una Diocesi, in collaborazione con il Vescovo, per la missione apostolica che è stata affidata a tutta la Chiesa.
Da tali considerazioni comprendiamo come il prete non sia un soggetto a sé stante, ma venga definito all’interno di una serie di relazioni – con il Vescovo, con gli altri membri del clero, con i fedeli – e dal servizio alla Chiesa e alla sua missione.
5.2 Per qualche tratto di “spiritualità del prete diocesano”
Da una tale prospettiva, provando a ripensare secondo una dinamica relazionale le promesse che il prete formula per l’obbedienza, il celibato, la preghiera e il ministero, cerchiamo ora di far emergere alcuni tratti di una possibile “spiritualità presbiterale”.
L’obbedienza può diventare “pratica di appartenenza” e non, anzitutto, l’esecuzione di un mandato. Le proposte pastorali del Vescovo costituiranno allora il principio ispiratore dell’attività pastorale, riguardo alla quale ciascuno eserciterà poi però la propria attiva responsabilità. Anche il munus regendi può essere interpretato come servizio alla comunione, prima che come l’incarico di prendere decisioni.
Il celibato, a sua volta, non si riduce ad una scelta personale da custodire per mezzo di una disciplina che accompagna tutta l’esistenza; rappresenta invece la condizione che favorisce la fraternità nel presbiterio, fino ad una possibile vita comune del clero. Essere presbiteri insieme non significa infatti partecipare soltanto alle riunioni dei preti, ma intendere la fraternità quale contesto significativo per la propria scelta personale, per i propri affetti, per il proprio essere parte di una comunità. Non esiste nessun eroe solitario capace di resistere a tutte le tentazioni per coerenza alle promesse pronunciate; c’è però un gruppo di fratelli che accompagna, che sostiene, che corregge.
La preghiera del prete ha poi il suo principio identificativo nella preghiera celebrata. Ciò significa che ogni azione liturgica, anche la Liturgia delle Ore, richiede un contesto celebrativo. Non si tratta del doveroso impegno di mantenersi fedeli alle pratiche di pietà, quanto dell’essere un presbiterio che prega insieme, dentro la più ampia comunità del popolo di Dio. La Liturgia delle Ore va dunque celebrata quale espressione e nel contesto di una comunione spirituale che è necessaria.
6. L’esercizio del potere
La frequente riflessione sul tema della sinodalità che ha caratterizzato gli ultimi anni è arrivata a toccare ambiti anche molto ampi, fino a fare della sinodalità stessa una categoria coestensiva della comunione. In questo contesto vorrei però limitarmi a considerare la procedura che aiuta ad arrivare a decisioni cristiane.
Come già dicevo, si dovrebbe in primo luogo contrastare l’inerzia che porta a vedere nel prete il protagonista determinante per le scelte pastorali della comunità. Sembra necessario pensare ad una riforma dell’esercizio del potere e la via per attuare una tale riforma non può che essere sinodale.
Sebbene negli ultimi anni il termine “sinodalità” sia stato ripetuto e richiamato con un’insistenza persino eccessiva, rimane un elemento fondamentale che non possiamo assolutamente perdere, nonostante ora il Sinodo si sia concluso e sia pure cambiato il Papa. Mi sembra infatti che la sinodalità rappresenti esattamente il modo cristiano di prendere decisioni cristiane. Sono almeno due gli aspetti indispensabili di cui ogni vero esercizio della sinodalità ha bisogno.
Innanzitutto, necessita di una spiritualità Non si tratta infatti esclusivamente di un metodo di gestione del potere: non serviranno decreti o una disciplina per passare da una sorta di “autorità monarchica” alla corresponsabilità. Affinché i preti si educhino e siano educati alla sinodalità, si richiede che abbraccino una corretta spiritualità di comunione.
Il secondo elemento necessario è imparare una procedura. Per arrivare a prendere decisioni cristiane, bisogna procedere in modo cristiano, vivendo uno stile alternativo sia all’autoritarismo che alla mera democrazia. C’è qualcosa di originale nel modo ecclesiale di discernere e scegliere. Il prete, insieme al Vescovo ed al presbiterio, dovrà imparare a praticare ciò che, in modo forse un po’ allusivo, definiamo “esercizio sinodale”. Il percorso della Chiesa universale e italiana di questi ultimi anni offre in merito indicazioni irrinunciabili.

