Si è talora affermato, come osservazione critica al nostro Sinodo, che l’immagine di Dio soggiacente a certi nostri discorsi era quella di un Dio forte, che suscita una comunità forte, compatta e vittoriosa; un Dio che mostra la sua gloria nel successo apostolico dei suoi seguaci e non nell’insuccesso e nell’insignificanza; che ci invia a una missione che è anzitutto "conquista" non solo di nuovi seguaci ma anche di prestigio sociale e culturale.
Di qui sarebbe conseguita l’autocoscienza di una Chiesa che cerca di organizzarsi per "contare" in questo mondo; che si compiace dei suoi fasti e delle sue glorie; che vorrebbe dominare e primeggiare, non sa rassegnarsi al ruolo marginale in cui la riduce inevitabilmente la società moderna, non sa vedere in esso la chiamata provvidenziale ad assumere il ruolo di Cristo umile servitore.
Personalmente ho riflettuto su questi interrogativi, come molti altri di voi, e me ne sono fatto carico. Non siamo certo immuni, come non lo è nessun cristiano e nessuna comunità, rispetto alle tentazioni che hanno assalito Gesù nel deserto. Siamo anche fragili e dobbiamo continuamente, come ci ha detto Giovanni Paolo II, fare autocritica e rileggere con spirito di umiltà e di pentimento il nostro passato remoto e recente (cfr. Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, nn. 33-36). Sono convinto però che non si tratta di rinunciare a un’immagine forte di Dio e trionfante della Sua Chiesa: siamo pur chiamati a vedere «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,26).
Ma si tratta di capire (e in questo senso va letto tutto il libro sinodale) di quale tipo è la nostra forza e la nostra vittoria nel periodo presente della storia di questo mondo. Si tratta di capire, contemplando il volto dell’uomo dei dolori, davanti a cui ci si copre la faccia, che il nostro volto non potrà essere diverso dal Suo; che la nostra debolezza sarà forza e vittoria se sarà la ripresentazione del mistero della debolezza, dell’umiltà e della mitezza del nostro Dio. Abbiamo bisogno di riscoprire la mistica ecclesiale della imitatio Christi che tanto stava a cuore al nostro Paolo VI e che fu motivo ispiratore della Lumen Gentium fin dal suo esordio: «La luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa, deve illuminare tutti gli uomini» (LG 1); «La Chiesa, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio» (LG 5); «Dalla virtù del Signore risuscitato trova forza per vincere con pazienza e amore le sue interne ed esterne afflizioni e difficoltà e per svelare al mondo, anche se non perfettamente, il mistero di Lui» (LG 8). Questa imitatio non è ripetizione di un modello esteriore, ma vera ripresentazione di Cristo in noi per la grazia dello Spirito, che ci conduce a imparare sempre di nuovo a percorrere la via dell’umiltà per completare nella nostra carne ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa (cf Col 1,24). La via dell’umiltà è dunque la via regale dell’imitazione di Cristo in ciascuno di noi e nella Chiesa che noi siamo: lo è stata per la Chiesa degli apostoli, che ha rivelato il volto di Gesù nel suo essere perseguitata. Stefano colpito dalle pietre ripete il grido di abbandono di Gesù al Padre (cf At 7,59).
Saulo riconosce per grazia, nei cristiani che perseguita, il volto di Cristo: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Noi, Chiesa ambrosiana, abbiamo oggi più che mai bisogno di confermare il nostro volto nel volto di Cristo umile e abbandonato, non per razionalizzare i nostri insuccessi o consolarci del nostro diminuito influsso sulle masse, ma per riconoscerci davvero qui e ora, in questa situazione concreta e difficile, partecipi del disegno di salvezza del Figlio crocifisso. Per imparare ancora una volta ad amare e servire come Lui ha amato e servito e ritrovare quella semplicità e scioltezza con cui la Chiesa degli apostoli, piccolo gruppo insignificante, ha affrontato il colosso della cultura del proprio tempo senza complessi, affidandosi alla forza e alla gioia del Vangelo.