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I tre sospetti dei seminaristi

Solennità della Natività di san Giovanni Battista. Giubileo dei seminaristi, Roma, Basilica di Sant’Andrea della Valle - 24 giugno 2025

24 Giugno 2025

1. Un uomo seduto, chiamato Matteo

«Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”» (Mt 9,9).

Gesù vede: vede un uomo, vede un uomo seduto, vede un uomo vincolato alla sua posizione di una professione antipatica, assestato nella ripetizione, un uomo in cui è sepolta la speranza, è spenta la gioia. Gesù vede anche noi, rivolge il suo sguardo a ciascuno di noi. Forse ci vede “seduti”. Forse legge in noi il grigiore di una rassegnazione alla ripetizione, la noia di essere vincolati a prestazioni.

La parola di Gesù «Seguimi» è un invito: non ti sembra che sia ora di ritrovare la gioia? Non ti sembra che sia tempo di risvegliare la speranza? Non ti sembra che la condizione in cui vivi è troppo noiosa, troppo spenta, troppo seduta? All’inizio c’è lo sguardo di Gesù. All’inizio c’è la relazione personale con Gesù.

Si può forse vivere anche il ministero come un assestamento, come la noia logorante delle prestazioni e della ripetizione, come la posizione antipatica di chi vede il prete come un professionista delle riscossioni. Ma lo sguardo di Gesù, la parola di Gesù può risvegliare un affetto troppo tiepido, può chiamare a una vita meno insignificante, può convincere a una sequela più lieta, più coraggiosa, più libera.

 

2. Matteo, uno dei Dodici

Sono dunque dodici. Non sono mandati in dodici direzioni. Forse insieme. Forse a due a due: «Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri» (Mc 6,7). Matteo fa parte di questi dodici (cfr. Mt 10,3). L’evoluzione dell’identità e del ministero del prete è verso la priorità del presbiterio. L’Ordinazione rende partecipi della missione apostolica, che i singoli preti e diaconi possono vivere in ragione dell’appartenenza. La deriva individualistica che insidia la cultura contemporanea, insidia anche i preti.

La condizione per essere seminatori di speranza è di essere uomini di speranza. Si rischia di non aver bisogno di una nozione precisa di speranza in questo anno in cui il riferimento alla speranza è obbligatorio in ogni titolo, in ogni convegno, in ogni predica. Ma la speranza cristiana non è una virtù da praticare per buona volontà. È piuttosto risposta alla promessa di Gesù: voi siete preziosi per il Padre, che si prenderà cura di voi; non preoccupatevi.

Due sfide sono particolarmente provocatorie.

«Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture» (Mt 10,9). Seminatori di speranza troppo garantiti possono essere poco credibili. Non possiamo evitare una riflessione sincera su un capitolo che trova i preti troppo suscettibili: che cosa ne fate dei soldi? Quanto soldi avete accumulato? Quanti soldi spendete? Per che cosa? Corriamo il rischio di ritenere inappellabili i nostri criteri.

«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi […]. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia» (Mt 10,16.25). I seminatori di speranza sono esposti all’impopolarità: il messaggio che portano, quello di Gesù, è troppo lontano dalla mentalità del mondo anche se offre salvezza al mondo; la via percorsa da Gesù sulla quale ci chiama a seguirlo è troppo alternativa allo ostile e ai desideri del mondo. Corriamo il rischio di accondiscendere alla mentalità del nostro tempo per evitare di essere impopolari.

Di fronte a queste, come ad altre sfide, il prete può perseverare nella missione e nella coerenza non perché è temerario, ma perché fa parte del presbiterio e trova nella fraternità del clero e nella relazione col Vescovo il punto di riferimento, il motivo di fiducia.

Contribuisce alla “cassa comune”, perciò può vivere senza accumulare «tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano» (Mt 6,19)! Condivide pensieri, parole, iniziative con il presbiterio e la comunità; perciò può annunciare il Regno di Dio che viene, che integra tutte le giuste aspettative, contesta tutte le mondanità.


3. Matteo, uno degli undici

«Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Ai discepoli rimasti, riuniti dopo il dramma della passione e della morte di Gesù, è affidato il compito di portare la parola del Vangelo e la promessa di Dio a ogni creatura.

Si può dire che è un azzardo quello di Gesù. Chi sono questi undici? Sono undici, mentre dovrebbero essere Dodici. Sono pieni di dubbi, mentre dovrebbero essere testimoni di una convinzione profonda. Sono inadeguati, per numero, per formazione, per qualità, mentre dovrebbero essere molti, formati e santi.

Così è cominciata la missione della Chiesa. Gli undici possono partire, perché Gesù è con loro fino alla fine del mondo. Possiamo ripartire anche noi.