In occasione della visita pastorale nel Decanato di Azzate, l’Arcivescovo ha incontrato i giovani, ha ascoltato le loro testimonianze e ha risposto ad alcune loro domande, toccando vari argomenti e sottolineando il valore dell'amicizia
Letizia
Gualdoni
Servizio per i Giovani e l'Università
Una nuova serata di incontro e confronto con i giovani per l’Arcivescovo Mario Delpini. Si è tenuta, in occasione della sua visita pastorale, martedì 7 maggio, per i 18/19enni e i giovani del decanato di Azzate.
All’oratorio Mater Ecclesiae di Morazzone, l’Arcivescovo si è messo innanzitutto in ascolto delle testimonianze significative di alcuni giovani, che hanno condiviso le loro esperienze, pregando affinché il Signore conceda ai giovani di tutto il mondo, che sono il futuro della Chiesa e della società, saggezza e forza per affrontare le sfide della vita, guidandoli sulla strada della verità e della giustizia.
Francesco, dopo la preghiera di Madeleine Delbrêl, su quel “catino colmo d’acqua” che insegna lo stile per girare il mondo con quel recipiente, e ad ogni piede cingere l’asciugatoio e curvarsi in basso, ha raccontato la sua esperienza di servizio che a Varese, insieme ad altri volontari e alle suore della Riparazione, vive da un anno e mezzo. «Vicino alle stazioni, diamo da mangiare ai bisognosi che non hanno una casa e non hanno da mangiare, e sono anche tanti (diversi non sono italiani, sono stranieri, altri sono persone che dopo essere state in carcere hanno poche possibilità di trovare lavoro, quindi scartati dalla società). Noi non solo offriamo del cibo, ma aiutiamo anche a cercare loro una casa, un lavoro. Cerchiamo di dargli una speranza».
Ha preso la parola allora Giacomo, un giovane che, con sincerità, ha portato la sua esperienza ed il percorso vissuto in oratorio, come animatore. Dopo un inizio non facile, ha imparato a stare con i ragazzi, a entrare in relazione con loro, organizzando i giochi, fino a quando viene “promosso” nel ruolo di coordinatore. «Ho fatto tutti gli anni del liceo come coordinatore, quindi impegnandomi in primo piano per far felici i ragazzi», ma l’estate 2020 (quella del Covid) è stata quella che lo ha segnato di più. Gli era stato chiesto di fare il responsabile e lui, dopo i mesi chiusi in casa, ha accettato ma la fatica è stata tanta e mancavano le energie. Poi, però, ha continuato: «Ho avuto questa possibilità di costruire un rapporto diverso con i ragazzi, più da grande, più da educatore, e ho deciso di continuare». Anche se questo servizio era ancora vissuto come il fatto di mettersi a disposizione degli altri, «restituendo qualcosa» in un luogo importante per la propria crescita personale. «Le cose sono cambiate l’estate scorsa», e porta nel cuore una confessione, «la più importante confessione della mia vita», vissuta alla GMG, che ha messo luce su tutti i momenti vissuti in oratorio. «Ho ripensato a tutto il mio percorso in oratorio, cosa voleva dire fare questo servizio da cristiano, con lo spirito di Gesù. Parlando con i ragazzi, una cosa che era uscita è stata che la fede non va solo coltivata, non bisogna solo pregare, ecc. ecc., ma bisogna anche trasmetterla, far vedere con le opere cosa vuol dire credere, fare questo servizio gratuitamente, senza aspettarsi nulla in cambio! Donare se stesso agli altri io penso sia la forma più alta di felicità e il mio messaggio, che penso che abbiate provato tutti voi che siete animatori, è che con Gesù è tutto molto più bello. Io sono orgoglioso di essere cristiano: questa cosa mi è entrata dentro dopo la GMG».
Ultima testimonianza è stata quella di Samuela e Lorenzo, che hanno raccontato la loro «pazza decisione di sposarsi». «Noi ci siamo conosciuti in oratorio – hanno spiegato – e abbiamo condiviso, soprattutto da educatori, tante esperienze, tante testimonianze che poi sicuramente sono state un po’ la base della nostra coppia, del nostro amore. Perché condividere certi valori, certe esperienze, è stato un po’ all’inizio della nostra storia, e sicuramente ha dato delle basi solide, che poi abbiamo costruito negli anni». Imparando così a seguire il Signore anche nei momenti di difficoltà, dandosi forza l’un l’altro e mettendo il rapporto con Dio nella preghiera al centro, e desiderando compiere questo passo, perché, come ha testimoniato Lorenzo, «penso che fare una promessa davanti a Dio sia la cosa più bella del mondo, ma soprattutto perché voglio costruire con lei una famiglia». «Ci siamo resi conto – hanno continuato – di come c’era un disegno scritto per noi, e anche poi il decidere di sposarci, di affidare a Dio il nostro cammino era anche un ringraziamento nei suoi confronti per averci fatto conoscere e incontrare».
Sono state quindi poste alcune domande all’Arcivescovo, per cercare nell’esperienza da lui vissuta e nella sua storia un incoraggiamento e un arricchimento per il proprio cammino di fede.
«Da giovane, cosa le faceva ardere davvero il cuore? Qual è stata la sua più grande passione e come l’ha coltivata?», è la prima domanda che gli è stata rivolta. «Le cose che mi facevano ardere il cuore, che indicano una passione, un gusto nel far le cose, era veramente l’atteggiamento normale in cui vivevo». Nella fase “eroica” della sua vita l’Arcivescovo ha sottolineato anche l’immaginario un po’ fantastico della letteratura di chi, facendo una cosa, cambiava il mondo, dei combattenti invincibili che lo entusiasmavano. Ad esempio si è riferito a un libro su Gandhi, un personaggio straordinario: ha avuto una vita molto tribolata, non ha compiuto opere clamorose ma è stato rigorosamente coerente e ha cambiato la storia. «Un altro tratto che per me è stato appassionante è stato il senso della responsabilità», che lo portava a organizzare le squadre per giocare a pallone come animatore dell’oratorio. Un valore, questo, trasmesso fortemente dal padre, che non solo faceva parte del paese (Jerago, dove l’Arcivescovo viveva) come abitante ma prendendosene cura, come cittadino. E la terza “passione” è stata la preghiera. Per me sono stati determinanti alcuni momenti di preghiera. «Ci sono stati dei momenti in cui ho avvertito che Gesù è vivo, nel mistero dell’Eucaristia, del Pane consacrato, io mi ricordo proprio il posto dove ho vissuto questo e l’intensità: Dio c’è! Dio mi avvolge, una cosa commovente… Questo mi ha fatto ardere il cuore: l’idea della verità di Dio e della concretezza della presenza di Gesù».
Seconda questione, che gli è stata dunque rivolta: «Qual è stata la più grande difficoltà che ha dovuto affrontare da giovane? Come l’ha affrontata?». L’Arcivescovo ha rivelato subito di sentire di aver vissuto una vita “facile”: sempre stato bene di salute, una bella famiglia, andava bene a scuola… Due cose sono state, per lui, dure. La prima era nell’adolescenza, quando ha vissuto un “complesso d’inferiorità”. «In quegli anni erano di moda i consigli studenteschi, i comitati di partecipazione degli studenti, io ero stato eletto nella mia quarta ginnasio, nel liceo statale, come rappresentante della mia classe. E c’erano i rappresentanti più grandi delle altre classi. Ecco, io non riuscivo mai a parlare, una specie di imbarazzo… superata quasi senza accorgermi, quando ho cominciato a dire qualcosa che pensavo e mi sono accorto che gli altri… ascoltavano! L’altro invece molto più duro è stato un lutto in famiglia. Ricordo ancora la frase che mi scrisse mia mamma, mentre ero in seminario: il Signore ha posato la sua potente mano su di noi. Per superare quel momento terribile, ha portato nel cuore la testimonianza di una fede seria, adulta, quella di sua mamma».
Nell’ultima domanda, prima del momento di apericena, gli è stato chiesto: «Come ha vissuto da giovane l’amore? Che consigli può lasciare a un giovane che prova a vivere e coltivare l’amore ai nostri giorni?». E il nostro Arcivescovo ha risposto focalizzandosi sull’amicizia, una tra le cose più meravigliose che si possano sperimentare. «Tra tutte le forme di amore, l’amicizia, l’amore coniugale, l’amore verso i più piccoli, l’amore che ti induce a fare del bene a quelli che sono meno fortunati, io credo di aver vissuto più intensamente l’amicizia. Penso a quella cosa un po’ “miracolosa” del diventare amici, che uno non sa perché diventa amico di un altro, è una cosa un po’ sorprendente di, a un certo punto, trovare una reciprocità, io voglio bene a lui o a lei e lui o lei a me. Questo diventa una scoperta di se stessi. Questa reciprocità degli affetti vuol dire questo: che uno si rende conto che è capace di amare, nel senso di prendersi cura della gioia dell’altro o dell’altra. L’amicizia ti rende migliore. Le tue parole possono far del bene. Il tuo ricordarti può essere un segno apprezzato. Il tuo dimenticarti può essere motivo di tristezza. Io vi augurerei di vivere delle amicizie serie, intense, di quelle che rendono migliori!».