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L’ABBAZIA DI MORIMONDO

26 Giugno 2003

Di Luca Frigerio

«Morimondo», morire al mondo. Volgevano le spalle al secolo, i cistercensi che nel 1134 giunsero nella valle del Ticino, vicino ad Abbiategrasso. E tuttavia proprio dal secolo provenivano, giovani, forti, ricchi di entusiasmo. Cavalieri alcuni, nobili altri, uomini cresciuti nei palazzi, educati nelle migliori scuole, che avevano conosciuto i piaceri della vita, e che ciò nonostante avevano deciso di abbandonare tutto, vestire un abito di lana grezza e seguire il Signore. Morire al mondo. Un desiderio grande di spiritualità, una vocazione all’ascesi, un’ideale di perfezione da raggiungere attraverso il silenzio e la meditazione. Eppure questo mondo andava vissuto fino in fondo, i monaci cistercensi lo sapevano bene. Un mondo forse pieno di errori, di brutture, di egoismi: ma un mondo da cambiare, non da rifiutare. Secondo l’esempio stesso di Cristo, che per salvare gli uomini si era fatto uomo. Erano tredici i cistercensi che dalla casa madre francese arrivarono quaggiù, dodici monaci guidati da un priore. I primi dell’ordine di Citeaux a insediarsi in terra lombarda. E non persero neppure un giorno. Subito cominciarono a lavorare la terra, a zappare, a falciare. E a pregare. Come tutti i rivoluzionari autentici, infatti, anche i cistercensi non vollero inventare nulla, ma ritornare piuttosto alla purezza, all’essenzialità delle origini: l’Ora et labora del padre Benedetto, questo e nient’altro. Roberto di Molesmes, il fondatore di Citeaux, li aveva messi in guardia; Bernardo, il più energico fra i discepoli del nuovo ordine, l’aveva loro ribadito: è la superbia il peccato più grande, la vera tentazione del Maligno. Basta con le vesti principesche, basta con gli ori e le gemme, basta con l’orgoglio che spinge gli uomini di Chiesa a sentirsi più potenti di re e principi… Gli amici di Gesù erano dei poveri: il vero monaco deve vivere come loro. Berrà vino, ma un vino semplice. Mangerà pane, ma i tozzi neri e ruvidi con cui si sfama la povera gente. E per guadagnarsi quel pane lavorerà con le proprie mani, per non dipendere da nessuno, per non pesare sui fedeli, per essere servitore e non servito. Con il passare del tempo, quest’ansia di rinnovamento e di fedeltà al Vangelo sarà duramente messa alla prova. Ma nella prima metà del XII secolo, negli anni colmi d’entusiasmo in cui andava nascendo questa nuova comunità, la croce e l’aratro erano davvero gli strumenti quotidianamente nelle mani dei cistercensi di Morimondo. Il territorio attorno cambiava aspetto, con le bonifiche, con i campi sottratti alla sterile boscaglia e coltivati. E con il mutare dell’ambiente, anche gli uomini trovavano una nuova fiducia: là dove era il buio delle tenebre, ora brillava una luce di speranza. Non fu la grande chiesa che ancor oggi ammiriamo, il primo edificio della neonata abbazia. E la cosa non deve sorprendere. Innanzitutto vennero costruiti i laboratori, i depositi dove raccogliere gli attrezzi agricoli e le fienagioni, la fornace dove cuocere i mattoni, la fucina dove forgiare il metallo. E contemporaneamente si edificarono i luoghi in cui i monaci avrebbero trovato riparo. Una semplice cappella, per il momento, sarebbe bastata al piccolo gruppo di religiosi.