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26 Giugno 2003

Anche l’arte cistercense, insomma, incominciava dal lavoro, dalla sistemazione degli appezzamenti, dalla definizione dei confini. Iniziava cioè con il creare la radura, perché respingere ciò che è oscuro, riportare all’ordine ciò che è informe o confuso, è anche far trionfare l’armonia, restaurare la primitiva bellezza. Il resto verrà da sé, spontaneamente, naturalmente. Era stato assai duro, san Bernardo, con le inutili ostentazioni di lusso nelle chiese, con quelle decorazioni esuberanti che volevano stupire, più che aiutare a riflettere. E ciò nonostante, il monaco di Clairvaux non era un iconoclasta. Per lui, per tutta la sensibilità cistercense delle origini, l’arte aveva una funzione importantissima, fondamentale: far sorgere lo spirito cieco verso la luce, risuscitarlo dalla sua sommersione interiore. L’arte è strumento di rivelazione, di rinascita, di una conversione che, come l’atto del Creatore, non è concluso nell’istante di un avvenimento puntuale, ma fluisce nella durata ininterrotta di un destino. Il complesso di Morimondo non farà eccezione. La sua chiesa, dedicata a Maria come tutte quelle dell’ordine di Citeaux, appare come una summa del pensiero teologico bernardiano: ampia, spaziosa, retta su forti pilastri, anelante al cielo. E tuttavia semplice, essenziale, dove l’equilibrio stesso diventa bellezza, e dove perfino le irregolarità sono memento al monaco del suo faticoso cammino verso la perfezione cristiana. Via le pietre pregiate, via i marmi, via gli stucchi ridondanti: tutto è fatto con i rossi mattoni padani, segno di un radicamento totale al territorio, di un’umiltà tradotta infine in altissima dignità. La costruzione del tempio, avviata attorno al 1180, proseguirà per oltre un secolo, giovandosi delle esperienze fatte nella vicina Chiaravalle e in altri cantieri lombardi, e determinando così, quaggiù, un’architettura più matura e completa, gotica nella forma, monastica – secondo la declinazione cistercense – nell’essenza. Ma non mancarono le difficoltà, le battute di arresto, le controversie. Morimondo crebbe rapidamente, forse persino troppo rapidamente. Nel giro di pochi anni aveva generato due filiazioni, Acquafredda nel comasco e Casalvolone nel novarese, mentre il numero dei suoi monaci andava sempre più aumentando. Nello scriptorium lavoravano alcuni tra i più abili copisti e miniaturisti dell’epoca, producendo volumi ricercati in tutta Europa. Acquisizioni e donazioni ne avevano esteso i possedimenti, portando maggiori ricchezze, ma anche nuovi problemi. E liti, gelosie e contese finirono per abbattersi sul grande centro monastico, inevitabilmente coinvolto nelle lotte che sconvolsero i comuni lombardi tra il XII e il XIII secolo. L’abbazia ticinese ebbe Federico Barbarossa per amico, il che non le giovò certo nei rapporti con Milano. Federico II, più tardi, le negò quella protezione che pur le aveva assicurato, lasciandola in balia di saccheggi e distruzioni. Nel Quattrocento finì in commenda, ma riuscì a riprendersi grazie all’innesto di cistercensi fiorentini. San Carlo Borromeo volle affidarle nuovi compiti pastorali, quale parrocchia dei centri rurali attorno. Ma dalla fine del Settecento, con le soppressioni napoleoniche, Morimondo vide disperdersi l’intero suo patrimonio, i suoi ambienti trasformarsi in cascine e case coloniche, deperendo, stravolgendosi, giorno dopo giorno. Il disinteresse e l’abbandono sono durati a lungo. Ma da una decina d’anni le cose stanno cambiando. Per le antiche sale, all’ombra del chiostro, oggi si incontrano le nere vesti dei Servi del Cuore Immacolato di Maria, che con passione e modestia hanno riannodato i fili di una lunga storia, prendendosi cura di quel che rimane, promuovendo il restauri di ciò che va salvato. E l’abbazia di Morimondo finalmente rinasce.