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Intervista

Ultima fase della malattia
da gestire in modo umano

Il professor Alfredo Anzani, membro corrispondente della Pontificia Accademia della Vita: «Il terapeuta è consapevole che, non ci sono spazi di intervento materiale, tutto è “ancora da fare” sul piano dell’accompagnamento»

di Annamaria BRACCINI

29 Aprile 2013

Sulle questioni del “fine vita” sono molte le imprecisioni spesso utilizzate per fini ideologici. Ma si può fare un po’ di chiarezza, soprattutto sul cosiddetto accanimento terapeutico? «Direi che non solo si può, ma è necessario», dice il professor Alfredo Anzani, membro corrispondente della Pontificia Accademia della Vita. Che spiega: «Quando una persona sta vivendo l’ultima fase della malattia, l’obiettivo principale da parte del medico deve essere quello di accompagnarla in modo umano alla morte. In un simile contesto, l’atto medico deve essere anzitutto appropriato, ossia adeguato al singolo caso; inoltre deve essere proporzionato alla malattia e, infine, ragionevole in termini di obiettivi, per un morire che sia rispettoso della dignità umana. Quando si compie qualcosa che è inutile, penoso, eccezionale, si giunge all’accanimento terapeutico. Ciò riguarda tutti, anche i medici non cattolici, che hanno altre fedi o convinzioni. Semmai, l’essere cristiano illumina il mio atto alla luce della fede: è un di più, mai un di meno».

Come medico cattolico, che ha ricoperto a lungo responsabilità istituzionali, qual è la pratica che viene messa in atto di fronte a pazienti terminali?
Oggi vige il principio di autodeterminazione, ma la sua esasperazione è cosa assai triste. Il medico non deve dimenticare che l’articolo 16 del codice deontologico del 2009 così recita: «Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici o terapeutici da cui non si possano fondatamente attendersi un beneficio per la salute del malato o un miglioramento della qualità della vita». Questo è un obbligo cui ognuno di noi deve rispondere in coscienza, in un rapporto medico-paziente basato sulla fiducia reciproca: nasce qui quello che io definisco «l’accompagnamento spirituale nei confronti del malato" nel momento del transito».

Il cardinale Scola, nella sua recente Lectio Magistralis tenuta al Policlinico, ha detto che la medicina è «un’arte terapeutica» che deve guardare all’integralità della persona. Secondo lei, c’è ancora da lavorare in questo senso?
Indubbiamente, ma occorre che la società ci aiuti nelle nostre funzioni: il medico non è Caronte che traghetta il malato all’altra sponda, è colui che si prende cura dell’altro, sempre, dall’inizio della vita alla sua fine naturale. E poiché l’uomo è un insieme di corpo, di psiche e di spirito, il terapeuta non deve – o non dovrebbe mai – pronunciare la fatidica frase «non c’è più nulla da fare», proprio perché è consapevole che, anche se dal punto di vista materiale non ci sono spazi di intervento, tutto è "ancora da fare" sul piano dell’accompagnamento. È ancora la deontologia a indicarci che abbiamo il dovere di offrire espressioni verbali che aprano alla speranza del malato: di non essere solo, di non soffrire, speranza che apre al trascendente. È, quindi, necessario che vi siano le condizioni per operare clinicamente in questo senso, laddove, invece, la società attuale allontana sistematicamente l’idea della morte e il significato della sofferenza, non accettando che la medicina non renda immortale l’uomo. Perché possa avvenire ciò che auspica il Cardinale mi pare urgente realizzare quello che a me piace chiamare un “mosaico terapeutico” che ha al centro il malato e, intorno a lui, il medico, l’infermiere, il cappellano, il parente, gli amici… Il medico deve diventare l’esperto, anche suo malgrado delle cose ultime e fermarsi sulla soglia del mistero.