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Intervista

«Società multiculturale? Tra i giovani una realtà»

L’analisi di Viviana Premazzi, della Fondazione Oasis, va oltre l’emergenza e le letture mediatiche sull’immigrazione. «L’esperienza di mobilità che i giovani fanno aiuta anche ad avere un altro tipo di lettura della realtà rispetto all’immigrazione, Erasmus è la conquista più grande dell’Unione Europea»

di Pino NARDI

26 Aprile 2016

Di fronte a un martellamento dei media che condizionano la percezione anche tra i giovani del fenomeno migratorio, è necessario promuovere iniziative come i Dialoghi di vita buona. «Il problema è che alcune visioni sono dominanti e vengono cavalcate, mentre c’è anche tutta un’altra parte, una vita quotidiana che funziona bene e di cui non si dà notizia». Lo sostiene Viviana Premazzi, ricercatrice in sociologia, esperta di immigrazione e integrazione e collaboratrice della Fondazione Oasis.

Dai dati dell’ultimo Rapporto giovani del Toniolo risulta una certa diffidenza e anche ostilità riguardo agli immigrati. Lei come valuta questo atteggiamento?
Come si dice anche nel Rapporto molto dipende dal momento in cui le interviste sono state fatte, quando l’attenzione dei media era focalizzata sui nuovi sbarchi ed era tutto molto emergenziale. Emerge la percezione che gli immigrati siano troppi. In realtà tanti loro amici sono di origine straniera e non sono problematici, anzi fanno parte della loro vita quotidiana.

Infatti c’è questa contraddizione tra la percezione e la quotidianità fatta di compagni di scuola e di università stranieri. Allora l’influsso dei media è determinante?
Secondo me sì, moltissimo. Per questi giovani la società è già multiculturale, tuttavia continuare a parlare di arrivi, di numeri (100 mila, un milione) porta a vedere l’immigrazione con timore. L’esperienza di mobilità che i giovani fanno aiuta anche ad avere un altro tipo di lettura della realtà rispetto all’immigrazione, Erasmus è la conquista più grande dell’Unione Europea: una possibilità per tutti e non solo per universitari e dottorandi aiuta ad avere un’altra visione meno netta, più sfaccettata, permette di capire cosa prova chi migra.

Quanto pesa nell’atteggiamento negativo la crisi economica e la difficoltà a trovare un posto di lavoro?
Anche questa è un’altra percezione: il fatto che i nostri italiani sono costretti ad andare all’estero mentre qui vengono gli immigrati che “ci rubano” il lavoro. In realtà non è così. Un’indagine riferita a Erasmus dimostra che le aziende hanno difficoltà a trovare persone che rientrano nei profili intermedi e alti. Domanda e offerta a volte semplicemente non riescono a incontrarsi nel momento giusto. È anche vero che i nuovi arrivati sono disposti ad accettare qualunque lavoro, cosa che gli italiani dall’altra invece non sono disposti a fare. Quindi è vero che c’è una competizione più alta nel mondo del lavoro, ci sono meno opportunità, ma ritengo che si tratti piuttosto di trovare un capro espiatorio per una crisi che invece è più ampia e ha diversi fattori.

Quanto è diffusa la paura tra i giovani vedendo loro coetanei francesi e belgi che diventano manovalanza per il terrorismo islamista?
Si ha sempre la percezione che viene dai media: il fatto di associare islam, immigrazione e terrorismo fa scattare maggiore diffidenza, islamofobia, discriminazione che come risultato può provocare in soggetti che fanno fatica, sono guardati con sospetto e discriminati, un’adesione a teorie radicali. Il ruolo dei media è fondamentale, ma anche di tutte le altre agenzie educative, sia nell’offrire opportunità o nell’intercettare per tempo quando qualcuno mostra segni di radicalizzazione, perché il gruppo dei pari può fare molto nell’aiutare, confrontarsi, sostenersi.

Quindi l’interrogativo si sposta su quale modello di integrazione praticare…
In Italia c’è una grande questione, che bisognerà risolvere e che tuttora sta aspettando in Senato: la riforma della legge sulla cittadinanza. Di sicuro privare tanti giovani della cittadinanza e quindi di tutta una serie di diritti e di opportunità può produrre un rischio di radicalizzazione. L’altro aspetto – come ci dimostrano la Francia e il Belgio – è che nonostante cittadinanza e diritti sulla carta diventa comunque difficile avere le stesse opportunità per discriminazioni o anche per scelte istituzionali più “assimilazioniste” che rispettano meno la diversità. Sono necessari diritti veramente esercitabili e il rispetto delle differenze: essere italiani, francesi o belgi con proprie specificità, bagaglio culturale e religioso.

In Europa però si alzano muri e fili spinati con il rischio di perdere anche la propria identità, storia e radici…
Esatto. La questione rifugiati mostra un’Europa debole, che non sembra in grado di gestire la situazione, che respinge provocando anche morti in mare o violenze gravi. Per un’Europa che si è fondata in seguito alla seconda guerra mondiale per cercare di evitare altre guerre e sulla promozione dei diritti è veramente un momento in cui si mette tutto in discussione. E ne fanno le spese i giovani, soprattutto perché si vedono con un futuro più difficile, con meno certezze, cercando capri espiatori a cui dare le colpe.

La terza serata dei Dialoghi di vita buona sarà dedicata ancora al tema delle migrazioni. Secondo lei iniziative di questo tipo, con la possibilità di confrontarsi, riflettere e creare ponti piuttosto che muri, possono essere utili?
Molto, sia per il momento in sé e sia per quanto viene comunicato, perché si ha un effetto eco anche attraverso l’uso dei media. Il mio suggerimento sarebbe anche di uscire dalla metropoli, perché chi vive in città è anche più abituato all’altro, alla diversità, all’integrazione, al confronto. Fuori dalle città, nei territori più periferici, vivono le persone che si radicalizzano, più convinte nell’opposizione all’immigrazione perché l’informazione avviene attraverso la televisione, non conoscendo invece realtà che funzionano.