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Gocce di cultura

Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia Meridionale dall’Ottocento ad oggi, Donzelli editore, Roma 1993

i Felice Asnaghi

30 Luglio 2013

Dopo i fatti dell’Ilva ho riletto il fortunato saggio sulla questione meridionale del prof. Bevilacqua. Nel 1990 l’insigne studioso, nato a Catanzaro, insegnava storia sociale all’Università di Roma, nel 1986 aveva contribuito a fondare l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali che dirigeva, inoltre era direttore della rivista Meridiana.

Bevilacqua vedeva nella politica industriale lo strumento per tagliare le ancestrali radici legate a mentalità clientelari tipiche del mondo meridionale. Oggi, vent’anni dopo la pubblicazione del libro, è possibile sostenere tale tesi?  Quale prezzo è stato pagato in termini di ambiente e salute?

 

Introduzione

La rappresentazione storica dell’Italia meridionale è quella di uno squilibrio costante. Fanno più notizia il folklore, la miseria contadina, i sequestri di persona ed i morti ammazzati dalle cosche. Ma è solo questo il Meridione?

 

Capitolo primo. Il Mezzogiorno preunitario

Nel 1806 il governo di Giuseppe Bonaparte istauratosi a Napoli abolì con due leggi la feudalità del Regno: confiscò terre e castelli ai baroni e stabilì che i demani ecclesiastici e comunali fossero divisi. Nacque così una borghesia meridionale, cresciuta all’ombra del feudo, che ereditò l’ingente patrimonio.

Nelle città si assistette a un aumento della popolazione e questo comportò un maggior numero di bocche da sfamare e il relativo aumento dei prezzi dei prodotti agricoli. Vaste superfici di pascoli, boschi e macchie furono dissodate e sottoposte a cultura, minando così l’equilibrio ambientale. La distruzione del territorio portò a fenomeni di erosione delle alture, di frane nelle pianure costiere, fenomeni di ristagno ed impaludamenti in prossimità delle foci dei fiumi.

Il governo borbonico che seguì cercò di mettere in ordine il territorio e ridisegnò l’intera geografia degli insediamenti. Ingegneri di grande valore come Carlo Alfan de Rivera (direttore del dipartimento dal 1824), realizzarono un numero considerevole di bonifiche in Calabria, Puglia e Campania. Un impegno che si fermò, in parte, con l’Unità d’Italia a causa dell’assoluta ignoranza delle condizioni ambientali da parte dei Piemontesi.

L’agricoltura non era solo grano, già dal tardo medioevo, il Meridione era conosciuto come distesa di alberi: gelso, ulivo, vite e canna da zucchero.  All’eccellenza dell’attività agricola però corrispondeva una debolezza del commercio.

L’industria in meridionale concepì opere pregevoli: il primo battello a vapore che attraversò il mediterraneo collegando Napoli a Marsiglia nel 1818 e la prima linea ferroviaria d’Italia, la Napoli Portici del 1839. In generale, i limiti di questa classe imprenditoriale erano rappresentati dai commerci sicuri come l’approvvigionamento dell’annona della città di Napoli o le attività legate allo Stato, trascurando le relazioni con le altre regioni italiane e gli stati europei.

 

Capitolo secondo. Nell’Unità d’Italia

L’ammissione del Regno di Napoli nella compagine nazionale fu un’operazione di carattere militare e istituzionale senza alcuna partecipazione popolare che aggravò ulteriormente i problemi preesistenti. Gli ideali mazziniani e garibaldini attecchirono presso le classi borghesi ma furono sconfitte dalla storia. Il brigantaggio non era mosso da ideali ma fu la risposta alla pressione fiscale, alla penuria di terre da coltivare, alla delusione dell’esperienza garibaldina, allo scioglimento del regio esercito borbonico e alla coscrizione obbligatoria che durava cinque anni. Il fenomeno assunse carattere di guerra civile e fu stroncato a ferro e fuoco.

Da allora il Meridione non cessò di essere considerato un problema. I primi intellettuali meridionali come Villani (pubblicò a Firenze “Lettere meridionali”), Sonnino e Franchetti elaborarono saggi di denuncia per lo stato di abbandono del territorio, per l’aggravarsi delle relazioni sociali improntate all’arbitrio personale e alla violenza del più forte. Lo Stato non fu capace di mostrarsi garante della giustizia e tutelare i diritti di tutti.

La mafia aveva il suo centro d’insediamento nelle campagne e nella città di Palermo ed era sparsa in molti altri luoghi dell’isola. La camorra, con l’Unità d’Italia, trasferì i suoi traffici all’interno della vita amministrativa ed elettorale della città partenopea fino al controllo dei prefetti e dei magistrati.

Con l’abolizione del maggiorascato nel 1865 si obbligarono le famiglie alla divisione dei beni in modo equo. Una ridistribuzione migliore della vendita dei fondi provenienti da beni ecclesiastici e baronali fu un vantaggio per le casse del nuovo Stato, inoltre con l’istituzione dell’enfiteusi si facilitò il riscatto delle terre da parte dei piccoli proprietari. In pratica, il contratto prevedeva un pagamento dilazionato del debito acceso per l’acquisto dei fondi.

Nei primi trent’anni dell’Unità il governo non promosse alcuna strategia industriale e le amministrazioni locali non erano in grado di organizzare attività imprenditoriali. Solo nel 1887 il governo italiano avviò una moderna politica industriale, ma oramai il Meridione era incapace di ripartire.

Il governo borbonico aveva elaborato un complesso di leggi e messo in atto una politica di grande coraggio e modernità che tendeva a coinvolgere proprietari nelle costruzioni, un’attività che si arenò con l’Unità d’Italia poiché le operazioni di bonifica passarono dal dipartimento dei lavori Pubblici a quello dell’Agricoltura.  Comunque si continuò nella politica delle infrastrutture: le linee ferroviarie della costa ionica e poi quella tirrenica e nuove strade carrabili che miglioravano il passaggio interno.

 

Capitolo terzo. Dalla crisi agraria al fascismo

L’illusione, negli anni ottanta dell’Ottocento, di far dell’agricoltura la leva dello sviluppo nazionale, ben presto si arenò ed i limiti li ritroviamo nell’inchiesta Jacini, la prima grande indagine sulle condizioni dell’agricoltura nazionale.

Iniziarono le emigrazioni transoceaniche inizialmente dal nord (veneti), poi del Sud verso l’Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti. Con l’inizio del Novecento le proporzioni dell’emigrazione furono gigantesche. Questo provocò una rottura definitiva del dominio dei proprietari terrieri, essi perdevano il grande potere che avevano sui contadini poiché gli stessi potevano scegliere di andarsene all’estero.  L’emigrazione aprì nuove dimensioni alle libertà individuali.  Le rimesse degli emigranti crearono una condizione favorevole all’economia: la lira raggiunse un valore superiore all’oro.

La crisi agricola del 1887, il rafforzamento del sistema bancario, una buona congiuntura internazionale e il crescente flusso di rimesse diedero slancio alla politica industriale. A fine secolo l’industrializzazione aveva il suo caposaldo nel triangolo Milano-Genova-Torino. Nel Sud i centri di sviluppo erano nell’area napoletana. Sarebbe profondamente ingiusto e storicamente infondato sostenere che il Nord si industrializzò a spese del Sud o che il Sud fosse divenuto un mero mercato del Nord.

Per quel che riguarda l’agricoltura, si mantenevano zone d’eccellenza per il vino: il Marsala di Vittoria e il Manduria della Puglia. Sulle terre crebbero frutteti e negli anni venti del Novecento prese piede l’arboricoltura.  Con l’uso di moderni aratri di ferro si potenziò la semina di grano duro per la fabbricazione della pasta. I ceti agrari puntavano in genere a non concentrare i propri capitali nello sviluppo delle imprese produttive. Fino agli anni trenta era ancora in vigore l’istituto delle regalie. Se nel Nord lo sviluppo dell’agricoltura venne a realizzarsi come movimento collettivo attraverso consorzi e l’interessamento delle istituzioni locali, nel Sud questa cultura societaria non attecchì.

Ma come interpretarono gli intellettuali meridionali questo periodo storico? Francesco Saverio Nitti (1868-1943), Gaetano Salvemini (1873-1957), Antonio Gramsci (1891-1937) indirizzarono le loro analisi sull’attitudine e la capacità analitica dell’indagine sociale. La cultura dominante serviva a conservare la società che la produceva non a cambiarla. La lentezza della trasformazione del mondo urbano impediva che stimoli e sfide creassero un continuo movimento.

Fu il siciliano Francesco Crispi (1815-1901), presidente del consiglio del Regno d’Italia a introdurre rinnovamenti e riforme negli ordinamenti amministrativi e nell’organizzazione della compagine statale. Nel 1888 la riforma elettorale allargò la partecipazione popolare e il sindaco, prima di nomina reale, fu eletto dai nuovi partiti.

 

Capitolo quarto. Gli ultimi cinquant’anni

Il 12 maggio 1950 la legge Sila diede l’avvio al processo di riforma agraria in Calabria che si allargò alle altre regioni meridionali. La riforma sancì, sul piano legale, la fine del latifondo inteso come proprietà giuridica. La Democrazia Cristiana si insediava profondamente nelle campagne soprattutto attraverso le sue organizzazioni collaterali come la Federconsorzi e la Coldiretti. I contadini legavano il proprio destino sociale più che allo Stato e al potere pubblico, a un partito politico e l’egemonia di un solo partito inaugurò un rapporto privato e clientelare del potere pubblico.

Si rinunciò all’operazione del così detto “cambio della moneta” connesso con il progetto in un sistema fiscale efficiente. Il prelievo fiscale è l’asse portante della democrazia moderna e il terreno reale del suo esercizio, infatti, spinge i cittadini a un maggiore interesse della cosa pubblica e al controllo sugli atti di governo.

Con la legge del 10 agosto 1950 fu istituita la Cassa del Mezzogiorno, organismo dotato di specifiche risorse finanziarie (in aggiunta al normale intervento dello Stato) destinate a intervenire con politiche mirate. Permetteva un credito agevolato e dal 1957 la Cassa avviò la politica dell’intervento diretto per la creazione di economie industriali.

L’industria del Nord, in crescita per l’esportazione, creò il divario tra le due Italie. L’industria del Sud aveva i suoi capisaldi nel centro siderurgico di Taranto ( oggi Ilva), nella Montecatini di Brindisi, negli stabilimenti chimici in Sardegna, nelle raffinerie Anic di Gela e nelle Industrie Riunite Italiane (Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell’Adriatico, SIP, SME, Terni, Edison, Aeritalia, Bagnoli, Alfasud) nella Montedison, nella Olivetti e nella Pirelli. Purtroppo le aspettative furono inferiori e l’indotto rappresentato dalle piccole imprese fu irrilevante.

Nelle pianure del Tavoliere, nella piana di Sibari, nell’area Metaponto- Lamezia, sul colle piano Crotonese e nella pianura di Catania la nuova agricoltura puntò sull’orto-frutticoltura grazie all’espandersi dell’irrigazione e della tecnica. Questo portò a una diminuzione dei lavoratori occupati in agricoltura e mise in atto un vasto movimento migratorio che svuotò le campagne.  Di contralto nelle zone interne prese piede un’agricoltura marginale, di sussistenza, costituita da aziende formate da una persona, perlopiù anziana, aiutata nei periodi di raccolta dai figli. Il Sud divenne serbatoio di vite umane, di braccia di lavoro. Iniziarono spostamenti dalle montagne e le colline interne verso le pianure e colline del litorale. Si costituì l’area metropolitana: Napoli, Palermo. Un dato positivo: nel 1972 si costituì l’università di Cosenza.

L’intervento pubblico anziché concentrare il proprio sostegno finanziario verso imprese, favorì l’assistenza alle famiglie, ai privati, ai vari gruppi sociali. Erogare pensioni, indennità, assistenza divenne il suo primo compito …

In verità, la prima emergenza del Mezzogiorno, come la restante parte della Nazione, è caratterizzata dalle condizioni della vita civile: lo stato dei servizi della pubblica amministrazione, il sistema politico, e la diffusione della criminalità organizzata.

Il potere pubblico è diventato la leva più importante per lo sviluppo. Questo ha avuto un effetto positivo per l’economia ma non altrettanto benefico per il sistema politico civile.

Che cosa ha reso queste forme illegali e violente, forti e diffuse negli ultimi anni? Certamente il controllo degli appalti e la certezza che lo Stato è sempre meno stato di diritto.

L’alternanza al potere delle forze politiche contrapposte e in concorrenza con loro porta ad una maggiore responsabilità ed efficienza in contrasto alla impunità tipica dell’immobilità. L’intera amministrazione della politica era costituita da funzionari di partito che amministravano le USL, il sindacato, le cui regole interne non erano quelle stabilite dallo Stato. La spesa pubblica (senza controllo) è divenuta strumento di assistenza clientelare. Il prelievo fiscale e diretto sui cittadini è la condizione essenziale della democrazia seguita dalla vigilanza e dal controllo.  I partiti di governo (dal 1980 in avanti) rafforzano il loro peso elettorale ma non per la capacità di governare la società e di organizzare la vita civile, bensì si reggono sul clientelismo e quindi sulla corruzione. Il lavoro è la condizione essenziale per affermare le libertà individuali non un bene mendicato tramite intercessioni e favori.

Il libro termina con una cospicua bibliografia e un importante glossario nel quale si possono leggere i significati delle parole comunemente usate nella terminologia politica, economica e sociale.