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Nuove moschee in città, tra libertà religiosa e legalità

Dalla situazione in viale Jenner al tema della cosiddetta "reciprocità", la posizione della Chiesa ambrosiana nelle parole di don Gianfranco Bottoni, responsabile del Servizio diocesano Ecumenismo e Dialogo

15 Luglio 2008

27/06/2008

di Fabio PIZZUL

Venti nuove moschee a Milano. La metropoli diventa come la Mecca? È il tono dei dibattiti di questi giorni sui giornali. Ma qual è la posizione della Chiesa milanese su una vicenda come quella della moschea di viale Jenner e più in generale della presenza di luoghi di culto islamici in città? Ne parliamo con don Gianfranco Bottoni, responsabile del Servizio Ecumenismo e Dialogo della diocesi di Milano.

Su questa vicenda qual è la posizione della Chiesa ambrosiana?
La nostra posizione come comunità cristiana è quella di richiamare all’opinione pubblica, alle istituzioni, alle parti in conflitto, due diritti inalienabili che sembrano confliggere, ma che si possono e si devono poter comporre. Da una parte il diritto costituzionale alla libertà religiosa e alla libertà di culto, dall’altra che lo spazio pubblico sia gestito e occupato garantendo la legalità. Non è certamente una soluzione accettabile che sui marciapiedi delle strade di Milano ci siano i musulmani che pregano, perché non hanno altri spazi. Allora bisogna trovare una soluzione. Essi stessi devono cercarla. L’Amministrazione comunale ha il compito di facilitarla favorendo il dialogo tra le parti in conflitto e soprattutto offrendo l’opportunità di reperire spazi adatti ad accogliere la preghiera dei musulmani.

Però non sono mancate le proteste dei cittadini…
Non dobbiamo condannare la posizione dei cittadini che vivono obiettivi disagi di fronte all’occupazione di spazio pubblico. Tuttavia per evitare l’impatto negativo la soluzione migliore non è forse quella di creare una grande moschea. Probabilmente sarebbero preferibili più luoghi decentrati, ciascuno dei quali con un numero non eccessivo di fedeli musulmani. Inoltre si tratta di affrontare luogo per luogo i problemi che eventualmente nascessero con la popolazione locale, mettendo in dialogo da una parte i cittadini attraverso i propri rappresentanti zonali e dall’altra le organizzazioni e le istituzioni islamiche.

Però è da un po’ di anni che si trascina il problema di viale Jenner e dell’occupazione del marciapiede…
Certo, e non è politicamente molto felice ignorare i problemi, fin quando poi esplodono come in questi giorni. La situazione era molto problematica già da tempo e si trattava di affrontarla. Se adesso si riescono a trovare proposte valide, mi sembra importante non ostacolarle. La Casa della cultura islamica, per esempio, sta attendendo di poter realizzare un proprio centro. Penso che sarebbe opportuno favorire le soluzioni che nascono da una delle realtà più serie e responsabili del mondo islamico.

Eppure c’è il rischio che si guardi a questo mondo come un tutt’uno. In realtà le espressioni sono molto diversificate…
Esattamente, è importante tenerne conto. Purtroppo a livello di media non si fa molta distinzione e poi una parte della popolazione rischia di essere reattiva in termini non sufficientemente ponderati.

Qualcuno sostiene «niente moschee finché non ci fanno costruire chiese nei territori islamici». È plausibile questa impostazione?
È un problema che spesso viene sollevato, ma in termini molto scorretti. Tale questione riguarda le relazioni internazionali tra Paesi: possono farsi carico il Governo italiano e il Ministero degli Esteri di denunciare quando si violano i diritti universali dell’uomo. Ma il problema nel nostro Paese non può essere affrontato con scelte anticostituzionali. Non è questo un problema della Chiesa, ma dello Stato, della sua laicità, nel rispetto della Costituzione.