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Ricordo

Montini, il parroco della Casa dei sofferenti

Durante il ministero ambrosiano ebbe una particolare attenzione per gli ammalati che non rinunciava a visitare, a partire dal “suo” Policlinico

di Giorgio COLOMBO

17 Giugno 2013

Pubblichiamo alcuni stralci dell’introduzione del volume curato da monsignor Giorgio Colombo Il "Parroco" della Ca’ Granda. Giovanni Battista Montini e l’Ospedale Maggiore di Milano (editrice Ancora).

Perché richiamare e illustrare il suo magistero e il suo ministero di parroco di uno dei più antichi e più celebri ospedali d’Italia? La risposta è evidente. Allorché mons. Giovanni Battista Montini venne designato da Pio XII come arcivescovo dell’Arcidiocesi Ambrosiana, nel 1954, egli sapeva che al titolo di Pastore di essa era contemporaneamente unito anche il titolo di parroco dell’Ospedale Maggiore di Milano, l’antica «Ca’ Granda», fondata dal duca Francesco Sforza nell’aprile 1456 (…).

Di questa duplice responsabilità pastorale, l’arcivescovo Giovanni Battista Montini si rese gioiosamente consapevole fin dal primo giorno del suo incarico, ancor prima dell’ingresso in Diocesi. Infatti, nella grande cerimonia della sua Consacrazione episcopale, nella Basilica romana di San Pietro, il 12 dicembre 1954, celebrante il cardinale Tisserant, erano presenti moltissimi milanesi per festeggiare il nuovo Arcivescovo. Tra questi erano giunti circa un migliaio di ospedalieri della Ca’ Granda con un treno speciale notturno da Milano a Roma. (…)

Qualche anno più tardi, nella Festa del Perdono 1961, egli dirà nel suo discorso ai malati e al personale della Ca’ Granda «di essere tra voi a titolo speciale, o per meglio dire a titolo ordinario come vostro parroco oltre che vostro Vescovo, perché tale è il vincolo di cordialità, di interesse e quasi di preferenza, che lega tradizionalmente il Pastore della Diocesi ambrosiana a questa istituzione che primeggia per la sofferenza che vi è accolta, per la scienza che vi è esercitata, per la carità che vi è profusa, da vincolarlo ad essa con il nome, anzi con il grado di parroco».

A questa parrocchia «sui generis» egli donò come Pastore convinto e appassionato il meglio della sua azione pastorale, dal 1955 fino al 21 giugno 1963, quando fu eletto Pastore della Chiesa universale.

Nell’occasione del 50° anniversario della sua elezione papale sembra opportuno, anzi estremamente doveroso, ricordare la sua opera di alto magistero e di umile e appassionato ministero da lui svolto come parroco dell’Ospedale Maggiore. Vorrei concludere puntualizzando le particolari motivazioni per cui egli amò e servì con tanta saggezza e con tanto amore questa sua parrocchia ospedaliera. Ne sottolineo alcune.

Amò e predilesse questa parrocchia perché era da lui vista come la Casa dei sofferenti, la dimora dei «pauperes Christi». Il cardinale Montini era sensibilissimo verso i malati. Basta vedere una fotografia in cui egli, Vescovo, sorride e accarezza uno dei bambini della Dermatologia pediatrica di via Pace (Policlinico). Ricordo lo stupore che lo colpì un giorno visitando gli spastici del distaccamento dell’Istituto Ortopedico G. Pini, quando entrato in corsia e vedendo un ragazzo spastico che si dimenava, steso a terra su un materassino, si gettò in ginocchio su di lui, fulmineamente, per accarezzarlo e benedirlo.

Amò l’Ospedale Maggiore per la sua storia secolare di assistenza e di cura verso i malati con spirito cristiano. Fu un grande ammiratore per l’arte profusa, nella costruzione sforzesca della Ca’ Granda, dal Filarete, dall’Amadeo, dal Richini, con la meravigliosa Crociera del Quattrocento, con il mirabile Cortile Regale, nel cui Quadrilatero di venti colonne per lato appare la stupenda Chiesa dell’Annunciata che ospita la grande tela del Guercino. Lo sentii esclamare una volta: «È la più bella Università d’Italia».

Amò e stimò l’Ospedale Maggiore per il valore dell’arte medica e chirurgica al servizio dei malati, per la fama ben meritata dei cattedratici e dei primari, i quali lo ascoltavano con grande ammirazione. (…) Desiderava ardentemente che il personale infermieristico non fosse competente solo professionalmente, ma anche dotato di sensibilità e amore al malato fino al sacrificio e all’abnegazione di sé. (…)

Ma un’altra grande preoccupazione lo affliggeva: quella di avviare nell’antica Ca’ Granda (…) una efficace pastorale universitaria. Si proponeva che proprio dalla Chiesa dell’Annunciata si irradiasse nell’ambiente universitario la luce della verità e della Sapienza divina. A questo desiderio pastorale era interiormente sospinto dalla sua esperienza precedente di Assistente nazionale della Fuci, dal 1925 in poi. Per lui la formazione dei futuri laureati era fondamentale. Certamente ricordava Igino Righetti e Aldo Moro come presidenti nazionali della Fuci di allora.