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Gocce di cultura

Milton Hatoum, Due fratelli, Marco Tropea editore, Milano, 2005

Traduzione di Amina Di Munno

di Felice Asnaghi

25 Settembre 2015

Milton Hatoum in una interessante intervista apparsa sul supplemento Cultura di Repubblica, del 5 maggio 2006 (traduzione di Anna Bissanti), racconta la storia della sua famiglia immigrata dal Libano all’inizio del XX secolo. «All’apogeo del “ciclo del caucciù”, mio nonno paterno lasciò Beirut per recarsi ad Acre, dove lavorò come ambulante: riforniva i villaggi lungo il fiume, tra le città di Rio Branco e Xapuri. Fu tra i primi immigrati libanesi della mia famiglia. Otto anni dopo tornò a Beirut pieno di immagini e racconti sull’Amazzonia, che trasmise ai suoi figli e ai suoi parenti.
Mio padre decise a sua volta di emigrare ad Acre. Partì con un cugino, prima della seconda guerra mondiale. Passando da Manaus sposò mia madre, figlia dell’Amazzonia. Si erano incontrati alla pensione-ristorante del mio bisnonno materno, che non ho conosciuto. Quando mi parlava di lui mia madre diceva sempre che era un ottimo cuoco e un gourmet luculliano, che sapeva combinare piatti arabi e ricette amazzoniche. Il nucleo che fondò la mia famiglia se insediò a Manaus».

Come spiegare che fosse arabo circa il 10% di tutta l’immigrazione straniera in Brasile negli anni compresi tra 1870 e 1900, la terza dopo quella italiana (che arrivò a toccare punte del 60%), e quella portoghese? Di sicuro ha aiutato il fatto che l’imperatore Pedro II parlasse correntemente l’arabo, avesse visitato Beirut e Damasco nel 1876 e sostenuto che «chi costruì la Damasco dei millenni, culla di civilizzazione, ci aiuterà a costruire il Brasile». In sostanza, i legami già forti tra mondo arabo e Brasile ebbero una svolta, 130 anni fa, per una precisa volontà strategica. Da quella visita imperiale, infatti, s’intensificò notevolmente il flusso migratorio arabo verso il Brasile e i siro-libanesi iniziarono a considerare la tratta Beirut-Santos-São Paulo una delle più attraenti per cambiare vita e far crescere le proprie fortune. Le cose non cambiarono neanche dopo la proclamazione della Repubblica, il 15 novembre 1889, quando era ormai consolidata l’usanza di inviare i cosiddetti “atti di chiamata”, ovvero le lettere che gli arabi già arrivati in Brasile spedivano ai loro amici e parenti con dentro il biglietto navale di sola andata, affinché li raggiungessero.

Libanesi, italiani, portoghesi, poco importa la provenienza è lo stesso Milton Hatoum che chiarisce i termini con cui comprendere  il popolo brasiliano: «Noi non facciamo compartimentazioni, non classifichiamo, non denominiamo le persone in funzione dell’origine o dell’etnia di questo o quell’altro gruppo sociale per distinguerle dagli altri”. Il dissolvimento delle origini è alla base stessa della formazione della società brasiliana, e ciò significa vero mélange, caratterizzato dal rifiuto di identità rigide e invariabili, dall’assimilazione di culture diverse non gerarchizzate. da ciò l’importanza della coesistenza di etnie diverse e di origini differenti, anche se pare un’utopia. Ad ogni buon conto, l’ibridazione e il meticciato non sono appannaggio esclusivo né del Brasile né dell’America latina, ma fanno altresì parte del passato europeo».

 Chiarite le premesse, punto di partenza per affrontare le dinamiche del romanzo, voglio far notare che dall’intervista riscontriamo tre elementi cardinali che interferiscono nel nostro “Dois Irmãos ”. Il primo sono i racconti orali che l’autore ha ricevuto dai suoi genitori e dal quale liberamente crea personaggi, come nel caso del ristorante di Galib.

Il secondo è la città di Manaus per la nella sua posizione geografica e quale luogo di una folta comunità cattolica libanese. Manaus è la più grande città della regione settentrionale del Brasile. Situata al centro dello Stato di Amazonas, è dominata dal Rio delle Amazzoni, sulla riva sinistra del Fiume Negro. Le isole, gli arcipelaghi e le aree ecologiche si trovano in prossimità della città, tra le quali spiccano l’arcipelago Anavilhanas e l’incontro delle acque, che è la confluenza tra le acque scure, quasi nere, del Rio Negro con il Río Solimões, come viene chiamato in Brasile quel tratto del Rio delle Amazzoni e che presenta invece acque argillose dalla tonalità più chiara.

Il clima della città, tipicamente equatoriale, presenta precipitazioni abbondanti in qualunque periodo dell’anno e in particolar modo dai mesi che vanno da dicembre a giugno, mentre le temperature oscillano tra i 23 e i 33 gradi.

I grandi corsi d’acqua e le piogge torrenziali persistenti e distruttrici non sono una semplice cornice alle vicende romanzate perché interferiscono nella trama, plasmano i personaggi, trasformano le vicende umane in gesti epici poiché sviluppati in un contesto naturale selvaggio e giocoforza violento. Nulla è banale, anche il gozzovigliare e il perditempo di alcuni personaggi, perché ogni cosa è conquistata.

 

Il terzo è il lessico. I personaggi parlano tra loro in arabo, o un misto con il portoghese, soprattutto tra i dirimpettai della via, gli abitanti dei cortiço e nei luoghi di lavoro. Il glossario a fine libro diviene indispensabile. Sono  familiari l’arak ovvero il distillato di uva tipico della tradizione libanese,  i gazal cioè le poesie d’amore della letteratura arabo-persiana, ecc…

A mio avviso, la parola che meglio disegna, orchestra le trame del romanzo è la violenza.  Quella della natura come prima segnalato, ma la ritroviamo nelle persone e nelle cose. Il destino drastico di Omar; la scelta di spedire nella terra dei padri Yaqub, ben sapendo che là, dall’altra parte del mondo, lui non avrebbe avuto un’istruzione doveva lavorare come pastore di pecore; lo stupro di Domingas; lo scontro tra padre e figlio, ma anche il duello in piazza tra Halim e Azaz; l’amore, o meglio il sesso, se da un lato cementa il matrimonio tra Zana e Halim, dall’altro è mercenario; l’abbattimento della città fluttuante, un quartiere di palafitte, che lascia senza casa gli ultimi, i disperati; la repressione militare con l’uso di torture e la morte dei dimostranti.

 

Galib, morta la moglie, rimasto con la sola figlia di appena sei anni, aveva deciso di attraversare il Mediterraneo e l’oceano per stabilirsi in Brasile per ricostruire una nuova vita. Era il 1914 (più o meno) e Galib inaugura il ristorante Biblos nella città di Manuas. La denominazione ricorda il suo paese libanese d’origine. La figlia Zana serve ai tavoli. Gli avventori sono immigrati in maggioranza libanesi. Tra i clienti del locale c’è il giovane Halim, mussulmano, perdutamente invaghito della bella Zana. Per conquistare il suo cuore lascia sul tavolo una busta con scritto alcune poesie d’amore. La bellezza dei Gazal (scritti per lo spasimante dall’amico Abbas) convince il padre e naturalmente rapisce il cuore dell’innamorata. Halim, pur mantenendo la sua fede, sposa Zana fervente cattolica maronita e tra loro sboccia un grande amore che li accompagna per tutta la vita, ma sarà (un amore) ferito, tentato e provato soprattutto nella famiglia stessa. Il dissidio tra i gemelli è il lev motiv della storia, attorno alla quale girano i personaggi che mano a mano si incontrano nella trama del racconto.

 

Omar, il Piccolo (perché nato qualche minuto dopo Yaqub) è il gemello scapestrato, nottambulo, conquistatore di puttane, indisciplinato, dissoluto, trasgressivo. Già dalle prime battute del romanzo mostra la sua innata violenza sfregiando il volto del fratello con un coccio di vetro. Il tutto per uno scatto di feroce gelosia amorosa scoppiata durante una festa tra i giovani del quartiere. Un gesto che crea un invalicabile muro di odio tra i due gemelli.

Il giovane supera il livello di guardia una notte. Dopo la solita sbornia porta a casa una donna e davanti l’altarino del santo consuma l’amplesso. Il padre se ne accorge, scende lentamente le scale, aspetta che la ragazza si rivesta e se ne vada, si avvicina al figlio che finge di dormire, lo afferra per i capelli, lo trascina fino al bordo del tavolo gli molla un manrovescio e lo incatena alla maniglia della cassaforte di metallo e poi scompare per due giorni lasciando il figlio in condizioni pietose alla cura delle donne di casa e infine lo libera al suo ritorno.

Halim si rende conto che la moglie Zana lo mette in secondo piano preferendo Omar e deve soccombere. Omar aveva perso la testa in realtà solo per due donne e il padre crede che lui se ne andasse, ma ostinazione della madre lo incolla a casa libero di far quello che vuole. Dália è una ballerina amazzonica che si esibisce in uno dei locali della città, una sera, il giorno del compleanno della madre, la porta a casa e con lei balla fino a notte tarda.

 «Dalla luce della lanterna impugnata dalla mano tremante di Omar. Lei sola catturava gli sguardi; continuò a danzare per un bel po’, con il corpo argentato reso folle dai ritmi dei tamburi, del battito delle mani e dal suono del liuto; e noi – storditi dai volteggi sensuali di quel corpo che ci aveva sottratti al buio – noi invidiammo il Piccolo, il gemello conteso».

La seconda fidanzata è Pau Mulato. Con lei il giovane sparisce, vive in una casupola e commercia pesce. La madre non si dà per vinta e con l’aiuto di Adamur il pescatore detto “Zampa di rospo” lo scova. Omar viene spedito a Sãu Paulo in un liceo di preti. Per sei mesi sembra che studi e si comporti bene, invece viene cacciato dalla scuola per aver malmenato un sacerdote insegnante e prima di far perdere le proprie tracce negli Stati Uniti, corrompe la cameriera del fratello, gli preleva soldi e la carta di espatrio. I suoi amici sono contrabbandieri, ladri, tanto che per un imbroglio mette nelle condizioni la famiglia di dover vendere la casa per non peggiorare la situazione. Al termine del racconto riesce a mettere le mani addosso al fratello e per questo motivo e anche (forse) per scelte di natura politica, in quanto partecipa ad una manifestazione pacifica di ricordo del professore ammazzato dai soldati viene arrestato e buttato in prigione.

Yaqub su insistenza della madre viene mandato da alcuni parenti in Libano pensando che la lontananza avrebbe dovuto diradare il dissidio con Omar. Al suo ritorno dopo cinque anni, non sa neppure parlare il portoghese e deve ricominciare a studiare. Nael, il narratore, così descrive il giovane: « All’esterno era davvero un altro. Nel suo intimo un grande mistero: un essere taciturno che non pensava mai ad alta voce (…), La cicatrice cominciava già a crescere nel corpo di Yaqub. La cicatrice, il dolore e un sentimento che non manifestava e che forse non conosceva. Non si parlarono più tra i fratelli».

Mentre Omar viene espulso dalla scuola dei preti e si iscrive con poco interesse al liceo detto “Il pollaio dei vandali”, Yaqub frequenta con profitto il liceo dei preti, poi si iscrive al Politecnico e diviene ingegnere ed intraprende una carriera prestigiosa. I genitori pensano che ritorni, invece si stabilisce a San Paolo dove sposa Livia “la bambinona bionda della compagnia”, colei per cui il fratello accecato dalla gelosia lo ferì.

La scena del suo addio alla casa paterna è significativa:

«Livia non comparve, doveva essere andata dalla stradina sul retro. Poi Yaqub rientrò da solo, con segni di graffi e morsi sul collo, il volto ancora infuocato. Si mise in viaggio a quel modo: gli abiti stropicciati, il viso umido, i capelli in cui si annidavano i ramoscelli, foglioline e fili di capelli biondicci. Partì in silenzio, lasciando la casa che aveva occupato con parsimonia e discrezione. Era poco più di un ombra che abitava in quel luogo. Lasciò nella casa il ricordo intenso di due scene audaci: la sfilata con l’uniforme di gala e l’incontro con la donna che amava.

Omar, rosso di gelosia non fece il nome del fratello…»

 

Zana, la madre, è presa dal fervore religioso ed assieme alla serva prega ogni giorno.

«Tutte e due dicevano le preghiere che l’una aveva imparato a Biblos e l’altra nell’orfanotrofio delle suore, qui a Manaus. Halim sorrise nel commentare l’accostamento fra moglie e l’india. “Cosa è capace di fare la religione . Può avvicinare gli opposti, il cielo e la terra, la cameriera e la padrona».  Zana è una donna forte che tiene in pugno la famiglia, fino al punto di determinare il destino del figlio Omar. 

Halim è tollerante, vuole che i figli scelgano la loro strada senza costrizioni. «Le sue preghiere, sempre serene, sembravano dubitare delle cose dell’aldilà. E quando non c’era un tappeto per inginocchiarsi, lui rimandava l’immersione nel trascendente». Uomo buono, le sue amicizie si allargano nel mondo degli immigrati libanesi dove nei locali di ritrovo si beve l’arak e per questioni d’onore ci si scontra nella pubblica piazza. Memorabile il duello a suon di coltelli e catene con Azaz che andava dicendo che se la spassava con le indie e aveva parecchi figli in giro. Cerca inutilmente di far desistere la moglie da prendere posizioni così diverse coi figli, soprattutto con Omar, perché si rende conto che questo figlio «vuole molto di più, desidera tutto. È prigioniero del desiderio».

Rânia, l’ultima nata della famiglia. Bella, attraente, ma al tempo stesso abile commerciante. Aveva trasformato il negozio di chincaglierie del padre in un negozio alla moda. E pur di non sottomettersi al volere della madre aveva scelto di rimanere nubile.

Domingas è la giovane india presa in casa come serva. La donna ha perso la madre nel villaggio natio di São João. Il padre, avendo inoltre già un figlio da accudire, è costretto a mandarla in un orfanotrofio gestito da suore. Qui lavora in continuazione, fin quando un giorno viene assegnata alla famiglia di Hamil e Zana. La donna accudisce la casa e segue i figli della coppia e diviene il centro di riferimento di tutti. Ha un figlio da Omar (Hamil lo tratta da un nipote), ma rivelerà questo segreto solo a fine vita.

Nael è il figlio di Domingas, è lui che narra le vicende del romanzo. Un ragazzo intelligente, vivace e pronto a cogliere le novità e dotato di uno spirito critico:

«Osservavo il fiume. L’immensità oscura e lievemente increspata mi dava sollievo, mi restituiva per un momento la libertà perduta. Respiravo solo nel guardare il fiume. Ed era molto, era quasi tutto nelle serate di riposo. A volte Halim mi dava qualche spicciolo e per me era una festa. Andavo al cinema, udivo il vociare della platea, provavo una sorta di stordimento nel vedere tante scene movimentate, tanta luce nell’oscurità. Dopo mi assopivo e dormivo, uno, due spettacoli, e mi svegliavo con la maschera che mi scrollava una spalla. Era la fine. La fine dell’ultimo spettacolo, la fine della mia domenica».

 

E come nei migliori finali Nael attende speranzoso l’incontro con il padre, purtroppo senza alcun esito:

«Il Piccolo (Omar). E già quasi vecchio. Mi fissò. Aspettai. Volevo che confessasse il disonore, l’umiliazione. Una parola bastava, una sola. Il perdono. Omar esitava. Mi guardò, ammutolito. Rimase così per un po’, lo sguardo trafiggeva la pioggia e la finestra, aldilà di qualunque angolo o punto fisso. Era uno sguardo alla deriva. Poi indietreggiò lentamente, mi voltò le spalle e se ne andò».

 

Come in una pellicola che scorre, compaiono personaggi eccentrici come Cid Tannus; Talibe il vedovo e le figlie Zahia e Nahia; Sultana; donna Estelita i cui genitori avevano conosciuto i re del Belgio in visita in Brasile; il professor Laval che viene malmenato dalla polizia, imprigionato e dopo tre giorni trovato morto; Wyckham il finto inglese di professione contrabbandiere. Poi rigattieri, pescivendoli, barcaioli in attesa della prima traversata, facchini seminudi, venditori di bibite e di frutta che montano le loro bancarelle di tela. Un’umanità vivace dove gli odori, sapori, colori della tradizione culinaria locale (frattaglie, viscere, interiora, maiale selvatico, pesce, angurie, verdure) si mischiano con quella del Medio Oriente che arricchisce la tavola di fichi secchi, mandorle, datteri, bottiglie di arak e il tabacco per il narghilè.