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Cesi

L’esperienza degli universitari
nei paesi poveri

In 27 giovani sono partiti l’estate scorsa per l’Africa con il progetto “Charity Work Program”. Per tutti sono stati giorni indimenticabili

di Luisa BOVE

20 Aprile 2012

“Charity Work Program” è il progetto che il Cesi (Centro di Ateneo per la solidarietà internazionale), sostenuto dall’Istituto Toniolo di studi superiori, lancia ogni anno agli studenti meritevoli che frequentano l’Università Cattolica a Milano, Piacenza, Roma e che risiedono nei collegi gestiti dai rispettivi atenei. Ai vincitori dell’anno scorso sono state offerte 27 scholarships di tre settimane estive in Paesi emergenti e in via di sviluppo come Etiopia, Ghana, Congo, India, Panama, Uganda…

È passato quasi un anno ma a Simone Tagliapietra (22 anni) sembra ancora di sentire «gli interminabili canti» e «il ritmo inquietante dei tamburi». Vive al Collegio Augustinianum, laureato in Scienze politiche e relazioni internazionali e ora iscritto al secondo anno di laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo. Simone ha vissuto qualche settimana a Kamituga, un villaggio nel cuore della foresta tropicale, in una regione della Repubblica Democratica del Congo. Un’esperienza “forte” tra fatiche e stupore. «Là si vive alla giornata, senza pensare a cosa potrebbe succedere domani e senza progettare nulla per il futuro», spiega il giovane. Ma si è reso conto che spesso gli aiuti umanitari creano dipendenza, la popolazione resta in attesa, e così non si avvia «uno sviluppo realmente sostenibile della situazione socio-economica locale».

Dall’esperienza africana Simone ha capito che occorre puntare sulla responsabilità («solo attraverso progetti di cooperazione inclusivi è possibile dare un vero aiuto») e sull’educazione («qualsiasi processo di sviluppo non può che partire da qui»).

Altra meta per Cecilia Marani (23 anni), residente al Collegio Marianum, al quinto anno di Giurisprudenza, atterrata all’aeroporto di Addis Adeba in Etiopia, insieme a Teresa, «la mia insostituibile compagna di viaggio». Ad accogliere le due ragazze c’era suor Hirut, «nostra referente, ma soprattutto il nostro “paio di occhiali” per leggere la realtà». Dopo la prima tappa nella capitale hanno visitato alcune missioni della congregazione della Divina Provvidenza per l’infanzia abbandonata. Cecilia e Teresa hanno incontrato tanti bambini negli asili, sono state coinvolte in un progetto di adozioni a distanza e hanno partecipato da testimoni alla firma di un contratto per la costruzione di un pozzo. Ma soprattutto non hanno dimenticato «gli occhi delle persone incontrate, così profondi e spesso velati di malinconia: occhi che t’interrogano e sembrano chiederti ragione di tante ingiustizie». La lezione che Cecilia ha portato a casa dall’Etiopia è di «non fuggire dal presente» e di vivere il futuro da «protagonista e artefice».

Per raccontare il suo viaggio in Panama ha scelto la macchina fotografica Davide Gelli (22 anni), laureando in Economia dei mercati e degli intermediari finanziari, iscritto alla facoltà di Scienze bancarie finanziarie e assicurative presso l’Università Cattolica di Milano. «L’utilizzo di una macchina fotografica», dice, «spesso abbatte barriere linguistiche e culturali che difficilmente si riesce a scalfire con altri strumenti». I suoi scatti tra gli indios Ngäbe-Buglé descivono le grandi contraddizioni tra grattacieli da miliardi di dollari a Panama City e le pozze di fango che si creano per mancanza di marciapiedi; il contrasto tra un bisogno di modernità con fili elettrici e tralicci che si stagliano nel cielo e la ricerca di solitudine con tramonti dai mille colori. Ma poi, ammette Davide, «rimani sbalordito quando incontri bambini di 5 anni farsi tre o quattro ore di cammino alle prime luci dell’alba per raggiungere la scuola».