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Evento

La Pietà Rondanini,
capolavoro estremo di Michelangelo

Da lunedì 18 febbraio il calco realizzato sul celebre gruppo michelengiolesco sarà esposto nel Duomo di Milano come guida per le meditazioni quaresimali. In quel marmo che il maestro scolpì fino agli ultimi giorni della sua lunga vita, il significato più profondo della fede in Cristo risorto.

di Luca FRIGERIO

13 Febbraio 2013

«Un movimento inarrestabile del corpo del Cristo morto dentro il corpo della Madre, genialmente fusi nel sublime non finito». Già colpito dal male che lo minava dentro, don Luigi Serenthà continuava a portare i suoi seminaristi davanti alla Pietà Rondanini, mostrando loro come il venerando Michelangelo aveva affrontato, negli estremi giorni della sua esistenza d’artista (eccezionale, forse, come nessun’altra mai), la lancinante ricerca del mistero di Dio, di quel Gesù schiantato sulla croce che qui sembra rigenerarsi nel grembo di Maria e già risorgere, trascinando anche noi nella rinascita alla vita eterna…

Nel prossimo tempo di Quaresima sarà proprio la potente immagine della Pietà Rondanini a essere proposta alla contemplazione dei fedeli ambrosiani nel Duomo di Milano. Da lunedì 18 febbraio, infatti, una copia dello straordinario gruppo michelangiolesco sarà collocata all’interno della cattedrale, accanto all’ambone, accompagnando così il cammino quaresimale diocesano guidato dall’Arcivescovo. Si tratta di una “replica” particolarmente significativa, essendo stata realizzata nel 1952 sul calco della stessa Rondanini dall’Accademia di Brera, all’indomani cioè dell’arrivo nel capoluogo lombardo dell’ultimo capolavoro del Buonarroti, quando entrò a far parte delle collezioni milanesi grazie a una sottoscrizione popolare, simbolo della rinascita morale e culturale della metropoli dopo le devastazioni della guerra.

Da tempo si era pensato di offrire alla meditazione quaresimale della diocesi proprio questa effigie così densa di richiami simbolici. Una proposta che oggi va a incrociarsi con la decisione da parte del Comune di Milano di allestire una nuova sede museale per la Pietà Rondanini, presso l’antica infermeria dell’ospedale spagnolo nel Castello Sforzesco, così da permetterne una migliore fruizione da parte del pubblico e un accesso più idoneo anche per i visitatori disabili. Nell’attesa che il nuovo allestimento sia pronto, la scultura di Michelangelo verrà dunque esposta in alcuni luoghi-simbolo della città, a cominciare dal carcere di San Vittore, dalla prossima primavera, per poi essere accolta, a dicembre, proprio nella cattedrale, in un percorso dalla fortissima valenza emblematica.

Perché la Rondanini non è davvero un’opera come le altre. Michelangelo vi lavora a più riprese nell’estrema maturità della sua vita di uomo e d’artista, e ancora negli ultimissimi giorni, a quasi 90 anni, con la vista annebbiata e le forze ormai vacillanti. Come se proprio da quel pezzo di marmo che scolpisce, leviga, martella quasi con disperazione, dipendesse infine ogni cosa. Come se proprio in quella scheggia di pietra attorcigliata come un secolare tronco d’ulivo, che bagna di sudore e di lacrime, dovesse lasciare la traccia di un testamento artistico e spirituale. Ed è una fiamma, il suo Cristo estremo, deposto dalla Croce fra le braccia della madre. Che brucia l’anima, e illumina la storia. Larva di redenzione, già annuncio di resurrezione.

Con la sua superficie scabra, con i suoi frammenti irriducibili, con quei segni che sembrano morsi e unghiate, la Pietà Rondanini sembra tuttavia voler resistere sd ogni analisi formale o stilistisca. Capolavoro di assoluta modernità, perchè così intimamente affine alla sensibilità del nostro tempo, smarrito, incerto, eppure ancora fiducioso. Come appare lo stesso Buonarroti alla fine della sua vita terrena, così come emerge dai suoi tardi scritti poetici, anch’essi custodi del “codice” per intuire, almeno, il tormento e l’estasi degli ultimi anni.

Perchè l’operare artistico, che ha riempito l’esistenza del maestro, si svuota infine di senso di fronte al divino interlocutore, che solo può riscattare l’uomo dalla condanna del nulla. «Né pinger né sculpire è più che quieti l’anima, volta a quell’amor divino c’aperse, a prender noi, in croce le braccia»: così Michelangelo, che con il suo talento sembrava aver valicato ogni limite, s’arrende di fronte all’assoluto, estinguendo infine la sua sete di infinito.