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Padre conciliare

Il cardinale Colombo lasciò il segno

Gli interventi e il contributo dell’Arcivescovo di Milano ai lavori del Vaticano II

di Francantonio BERNASCONI

7 Ottobre 2012

Il 7 dicembre 1960, nella fulgida corona della basilica santambrosiana e nella solennità del patrono milanese, Giovanni Colombo veniva ordinato Vescovo, col titolo di Filippopoli in Arabia, per le mani e l’invocazione consacratoria del cardinale Giovanni Battista Montini. Così, nella fervida vigilia dei lavori conciliari del Vaticano II, fu subito inserito nella commissione preparatoria sui temi inerenti i Seminari e le università degli studi.

Intervenne alla prima sessione del Concilio e partecipò alle altre cambiando di volta in volta nell’aula il posto per la dignità che rivestiva: dapprima tra i Vescovi titolari, poi tra gli Arcivescovi, infine tra i Cardinali. Come compagno di banco che procedeva quasi simultaneamente a lui nei medesimi gradi aveva il somasco latino-americano Mario Casairego.

Nel giugno 1963 alla morte di papa Giovanni XXIII, avvenne l’elezione al soglio pontificio dell’arcivescovo Montini. All’indomani dell’elevazione alla Cattedra di Pietro, Paolo VI pensò subito a Colombo come successore a Milano. Il 20 ottobre attraversò la Diocesi da Venegono sino a Milano; e proseguì nel soleggiato pomeriggio d’autunno verso la sua Milano, la sua Cattedrale, divenuto Arcivescovo a tutti gli effetti della nostra grande Diocesi.

Come Padre conciliare prosegue la sua presenza alle sessioni del Concilio inviando a ogni fine settimana una lettera ai diocesani, comunicando con puntualità e precisione, i temi delle discussioni, gli incontri, l’ampiezza della visuale ecclesiale, che egli viveva in prima persona.

Nell’assemblea ecumenica prese la parola tre volte. E fu il 12 novembre 1964, il 26 settembre 1965 e il 14 ottobre 1965. I temi gli erano troppo cari: l’educazione del Seminario, i fini del matrimonio e la vita sacerdotale. Il sapore dei sui interventi si ritrova nei decreti Optatam totius, Gaudium et Spes e Presbyterorum ordinis sia in Occidente, sia in Oriente.

Tra le proposte conciliari avrebbe desiderato che approdasse anche una dichiarazione che definisse giuridicamente e autorevolmente, una volta per sempre, lo stato di vita dei sacerdoti diocesani – innestati nella collaborazione diretta del Vescovo – come «stato di perfezione» raggiungendo così una equiparazione a quella dignità «di stato di perfezione» attribuita notoriamente ai religiosi e alle religiose da studi e da varie costituzioni canonistiche all’interno della Chiesa sia in Occidente sia in Oriente. Da questa sua iniziativa non sortì nulla di ufficiale, anche per il mutare rapido della sensibilità ecclesiale al riguardo che badava più alla sostanza che alla forma.

Vescovo e Padre nella suprema assise vaticana, finito il Concilio, non ripose in cartella, come ricordi di una bella avventura, i documenti che da Roma erano stati promulgati e che gli erano stati consegnati, ma, per quanto gli richiedessero varie puntualizzazioni personali, non esitò a leggerli e a rileggerli, a presentarli e a commentarli in vari toni, correggendo con cordialità e chiarezza chiunque li volesse tendenziosamente interpretare. Già la vigilia di Ognissanti del 1964 esprimeva il suo proposito di celebrare un Sinodo diocesano (sarebbe stato il 46° della serie), «per una programmazione più completa e articolata delle attività pastorali diocesane secondo i decreti del Concilio Vaticano II». E lo iniziò 1’11 ottobre 1966 con determinazione, sapendo che l’attendevano varie prove perché «il Sinodo è una raccolta di leggi, – scrisse in seguito – ma oggi le leggi non godono buona fama. Sono spesso sentite come strumento di potere e di repressione in un ordine costituito».

Non volle essere solo, ma in una chiara spiritualità di “comunione” voluta dal Concilio volle vicina e corresponsabile la variegata realtà diocesana: sacerdoti, religiosi e laici furono interpellati con modalità e procedimenti distinti e convergenti in commissioni e in consultazioni.