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Gocce di cultura

Domenico Carena, Fratel Luigi la roccia, ed. San Paolo srl 2003, Alba (Cuneo)

Felice Asnaghi

26 Marzo 2013

Domenica notte, mentre vegliavo mia madre in ospedale ho finalmente letto il libro "Fratel Luigi la roccia" che a suo tempo fratel Roberto Colico del Cottolengo di Torino mi aveva donato.
La semplicità del testo, supportato da una raccolta di immagini non ha bisogno di commenti perché evidenzia a chiare lettere il monito di Gesù: "Beati i poveri di spirito perché vedranno Dio".

Il libro inizia con la lettera del card. di Torino Anastasio  Ballestrero:
«Fratel Luigi ha realizzato alla perfezione lo specifico carisma cottolenghino prestando nella fede il quotidiano, umile, eroico ed esaltante servizio agli ultimi: la sua articolata e feconda esperienza esprime per i nostri giorni l’apice dei “consigli evangelici”. Egli è “luce” da porre sul candelabro; la concretezza del suo esempio offre alle conturbanti povertà dell’uomo contemporaneo una risposta di alto significato cristiano a gloria di Gesù che resta sempre per noi il Signore e Maestro».

L’emerito e compianto presule del capoluogo piemontese traccia consapevolmente la figura di un santo. Ma chi è il santo?
Luigi Giussani in uno dei suoi memorabili scritti così risponde:
«Vi è un’accezione della parola santità la quale si rifà ad un’immagine di eccezionalità che un’aureola esprime. Eppure il santo non è né un mestiere di pochi, né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana (…) Il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero (…). La santità è il riflesso dell’immagine dell’unico uomo che è stato ed è completamente tale, Gesù Cristo».

Con questa consapevolezza rileggiamo le pagine di questo bel libro di Domenico Carena che ripercorre la vita di Andrea Bordino, alias fratel Luigi della Consolata membro della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino.

Capitolo 1 – La Siberia di ghiaccio
Agosto 1942, la tradotta carica di alpini lasciava il Piemonte con destinazione il fronte russo.
Nella Cuunense, una delle quattro divisioni che costituivano il Corpo Alpino, erano arruolati i fratelli Risbaldo e Andrea Bordino. Nella steppa sconfinata, senza montagne dove ripararsi, senza una divisa consona alla gelida temperatura, si celebrava la peggior disfatta che il nostro esercito potesse ricevere. Nel Natale del 1942, sotto il fuoco di sbarramento nemico e l’inverno polare senza tregua si consumò la disfatta e ai militari superstiti non conveniva altro che arrendersi ed essere internati nei campi di concentramento, cioè i famigerati gulag siberiani. Eppure in questi luoghi desolati e drammatici dove la morte era una compagna quotidiana, il cannibalismo una realtà inconfessabile e la vita umana meno considerata di quella delle bestie, non mancavano gesti di amore. Momenti corali di intensa umanità si rinnovavano attraverso le canzoni del repertorio alpino o del Va’ pensiero verdiano che tanto incantavano le guardie russe.

«Va’ pensiero è un coro di prigionieri composto come tale: il canto degli ebrei deportati da Nabucodonosor nella cattività babilonese. Verdi lo concepì come una preghiera di liberazione, un anelito alla “patria si bella e perduta”. Nel gelo della Siberia intonato da prigionieri non meno sventurati degli antichi ebrei, esso prendeva verità e forza, alzandosi per un momento al di sopra di ogni miseria. Il loro pensiero, sulle ali dorate, angeliche che Andrea Bordino gli aveva prestato, andava a posarsi sui clivi e sui colli del Piemonte, salutava le rive del Tanaro, le torri di Alba, la Montà e Castellinardo, la vigna di Fossamara col grande salice, e quella erta di Mongalletto; e ne tornava intriso delle auree profumate, tiepidi e dolci “del suolo natal”».

Benché il fratello Risbaldo nel campo di Pactarol fosse addetto alla cucina, Andrea non ne approfittava; il vincolo evangelico con i poveri, prima lo portava ad evitare ogni privilegio, poi lo rendeva solidale con i più fragili. Il suo posto era al lazzaretto con i commilitoni in stato di abbandono, nel loro puzzo stercorario e cadaverico.
Le condizioni di Andrea erano drammatiche. Camminava sempre appoggiato ad un altro detenuto e i loro scheletri erano le loro grucce. Non teorizzava la sofferenza, la riconosceva comunque presente nell’esperienza umana e si rimboccava le maniche per combatterla. Da uomo di fede sapeva sempre trovare il comportamento adeguato per tutte le situazioni.

Così racconta un commilitone:
«La Settimana Santa del 1944, si discorreva sulla tristezza di far Pasqua al campo di prigionia, senza neppure avere un prete. Con la sua abituale discrezione Bordino ci disse: “Se vogliamo possiamo far Pasqua spiritualmente. Basta pentirsi e fare la comunione spirituale”. Questa proposta così semplice sulle labbra di un soldato di eccezionale bontà, mi colpì al punto che non l’ho più dimenticata».

Capitolo 2 – Tra Langhe e Roero
Nel settembre del 1945 i fratelli Bordino erano al loro paese natale, Castellinardo. La famiglia Bordino era costituita dal padre Giacomo, dalla mamma Rosa e da otto figli, legata a doppio filo con la sua terra, le proprie tradizioni. Il padre ricopriva la carica di sindaco nell’immediato secondo dopoguerra ed i figli erano iscritti all’Azione Cattolica ed impegnati nelle opere parrocchiali. Le profonde cicatrici causate dagli orrori della guerra segnavano la vita di Andrea tanto da rimanere nascoste nel suo cuore e non essere menzionate a nessuno. Robusto di costituzione, continuava il lavoro nelle vigne paterne, amava stare in compagnia degli amici, primeggiava nelle gare sportive eppure non si decideva a fidanzarsi.  La sua vocazione religiosa ogni giorno si faceva insistente nell’incessante preghiera quotidiana. Così un giorno incontrando suor Ernestina, si sentiva dire:
«Lo sai che Clelia (ndr la sorella) pensa di andare suora al Cottolengo. Se vuoi c’è posto anche per te presso i Fratelli Cottolenghini. Non ti piacerebbe fare l’infermiere dei poveri?»
Il 23 luglio 1946 Clelia e Andrea concordavano il loro ingresso al Cottolengo di Torino.

Capitolo 3 – Servo di Dio e dei poveri
Andrea, divenuto infermiere al Cottolengo, stabiliva rapporti di amicizia con i barboni che svernavano nelle stalle dei cascinali coperti di luridi cenci, assediati dai parassiti. Li lavava, li tosava e disinfettava, per poi rivestirli con panni puliti.
Nel 1947 indossava l’abito dei fratelli Cottolenghini, un talare corale di panno nero con cintura e corona al fianco e puntato sul petto a sinistra un cuore smagliante di lana rossa e decideva di farsi chiamare fratel Luigi della Consolata. Nel 1948 emetteva primi voti di povertà, castità ed obbedienza e nel 1966 seguiva la professione perpetua. Nel 1972 veniva nominato superiore locale. Poco propenso alle discussioni egli otteneva la disciplina e l’osservanza attraverso l’esempio.

Capitolo 4 – Notte e giorni di fratel Luigi
Esisteva una scuola di infermiere religiose professionali che collaborava con il corpo medico. Quest’ultimo fino al 1970 era costituito da volontari medici e chirurghi che già lavoravano nelle altre strutture della città. Oltre ai reparti di medicina e chirurgia, al Cottolengo funzionava un padiglione per i lungodegenti e per i ragazzi portatori di invalidità molto gravi. Nel periodo post-bellico, il servizio sanitario pubblico era di là da venire. L’ospedale traboccava di degenti provenienti da tutt’Italia. C’era comunque l’accortezza di dare la precedenza alle persone più povere e in stato di abbandono.
Fratel Luigi restava sempre disponibile alle richieste più imprevedibili dei malati ed inoltre era il punto di riferimento dell’organizzazione quotidiana dell’ospedale. In particolare egli svolgeva buona parte della sua attività professionale in qualità di infermiere nella sala operatoria: preparava i pazienti, li seguiva anche durante il lungo periodo di degenza.

Suor Chiara Cortinovis per anni ha lavorato al fianco di fratel Luigi, così ne tratteggia la profonda umanità e professionalità:
«Nelle circostanze impreviste e difficoltose rimaneva imperturbabile. Mediava le tensioni. Mi capitò di vederlo pregare l’Ave Maria insieme all’ammalato che, nell’anticamera della sala operatoria temeva l’intervento chirurgico. Assicurava la calma, il buon tratto, la serenità, tanto per il personale, quanto per i degenti. Non cambiava mai umore, il suo comportamento era una sintesi di abilità articolata tale da soddisfare al meglio qualsiasi esigenza delle persone in difficoltà».

Per fratel Luigi comprendere un uomo in difficoltà voleva dire sentirlo un fratello e soffrire con lui. Egli conosceva il linguaggio dei poveri, ne intuiva le esigenze più segrete, anche quando non parlavano: barboni e disperati erano i suoi migliori amici.

Capitolo 5 – Temprato a fuoco nel buio della storia
Negli anni sessanta sotto la spinta riformatrice dell’approvazione canonica della famiglia religiosa femminile, si cominciavano a porre le basi per il riconoscimento pontificio dei fratelli cottolenghini. All’inizio si costituiva un consiglio generale formato da cinque membri, fra cui lo stesso Luigi, che studiò le norme della famiglia religiosa. Si fece buon uso delle regole scritte nel 1883 dallo stesso fondatore Giuseppe Benedetto Cottolengo, tra l’altro riportate alla luce casualmente dallo stesso fratel Luigi mentre si trovava nella casa di Mondovì. L’iter di riconoscimento approdava nel 1965 a Roma e si concretizzava con l’approvazione della Congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Cottolengo.

Capitolo 6 – Fedeltà e profezia
In seguito al riconoscimento papale i fratelli che avevano l’anzianità prevista si prepararono alla professione perpetua. Il 26 dicembre 1965, fratel Luigi faceva testamento: «Lascio tutto quanto sarà di mia spettanza, il giorno della mia morte, alla Piccola Casa della Divina provvidenza Cottolengo di Torino»; poi ai primi di gennaio emetteva la sua professione perpetua. Davanti alla comunità, giurava sull’altare di vivere i consigli evangelici per la gloria di Dio e a servizio dei poveri, sino alla propria morte.
Nel novembre dello stesso anno egli veniva nominato vicario generale della famiglia dei fratelli e nel 1967, su proposta del card. Pellegrino, entrò nel Collegio direttivo della Piccola Casa affiancando il padre superiore, suo legale rappresentante nella gestione di tutta l’opera.  Nel 1972 era eletto superiore locale della comunità dei fratelli di Torino.  Durante la sua direzione, si impegnava nel vigilare affinché l’opera non si trasformasse in un’azienda, ma rimanesse legata al servizio degli ultimi.
Benché gravato dalle responsabilità non smetteva il suo lavoro di infermiere in sala operatoria e non rinunciava la sua opera di apostolato tra i malati e gli operatori del settore.
Uno di loro così lo ricorda:
«Mi ha insegnato a non disperare mai, ad essere paziente sempre, ad essere più buono e caritatevole anche se non mi ha mai fatto una predica».

Capitolo 7 – Stelle alpine sul Golgota
Se l’esperienza drammatica della guerra aveva permesso a fratel Luigi di conoscere in modo nuovo il volto di Dio nelle miserie umane, il calvario della malattia lo mondava di ogni peccato e presentato al cospetto di Dio puro di cuore.
La presenza dei puri di cuore come fratel Luigi ci aiuta a mantenere desta in noi la nostalgia di un mondo pulito, vero, sincero, senza ipocrisia né religiosa né laica; un mondo in cui le azioni corrispondono alle parole, le parole ai pensieri e i pensieri dell’uomo a quelli di Dio. Sappiamo che questo sogno non avverrà se non nella Gerusalemme celeste, la città tutta di cristallo, ma dobbiamo almeno tendere ad essa. Personalmente mi auguro che il servo di Dio, Fratel Luigi Bordino (1922-1977), salga alla gloria degli altari: ne abbiamo bisogno!

Nel 1975, dopo un periodo di spossatezza fisica, decideva di eseguire alcuni accertamenti clinici che gli diagnosticavano una leucemia mieloide, male che non lasciava nessuna speranza. Così dopo un periodo di ospedale si recava in un villaggio di montagna a Grand Puy non lontano dal Colle Sestriere.

«Pinete, sentieri solitari, fiori e funghi lo attraevano profondamente. Il contatto con la natura, la possibilità di pregare ad alta voce, da solo o con i confratelli, tra gli abeti e le rocce, sotto la volta di un cielo immenso, lo esaltava. Egli si ritrovava pienamente uomo consacrato a dio e fratello di tutti, in quella immensa cattedrale senza mura che è il creato».

Le ricadute erano continue, veniva ricoverato di frequente alle Molinette di Torino. La sua era una via crucis vissuta con grande compostezza. Ecco cosa scrisse il professor Paolino che lo aveva in cura:

«Nel rievocare il ricordo di un malato, di solito si dice di come ha affrontato la malattia. Nel caso di fratel Luigi questo verbo non mi pare appropriato in quanto egli non ci diede mai occasione di pensare che per lui la malattia fosse un nemico da affrontare, ma semplicemente un fatto nuovo da accogliere senza sorpresa, dolore o recriminazioni (…). Fino all’ultimo periodo di ricovero e per quanto lo consentirono le sue condizioni fisiche, fu sempre pronto, non so se a confortare, ma certamente ad aiutare i compagni di malattia che ne avevano bisogno, con una stupefacente serenità. E con la stessa serenità, almeno nelle apparenze, visse gli ultimi mesi sottoponendosi senza esitazioni a cicli di polichemioterapia allora in uso e sopportandone senza lamenti gli effetti secondari devastanti».

Capitolo 8 – Magnificat per fratel Luigi
25 agosto 1977, consumato dal morbo, ma sempre in piena lucidità mentale, fratel Luigi concludeva la propria vita terrena donando a due non vedenti le cornee dei propri occhi.

«Gli occhi di fratel Luigi avevano assorbito e fuso insieme il verde delle vigne e l’azzurro del cielo sereno, tipico delle Langhe assolate. In Siberia, arrossate dai gelidi barbagli delle sterminate lande ghiacciate, avevano sperimentato miseria, crudeltà e morte. Poi la sua vita bruciata dal motto paolino Caritas Christi urget nos! Ha percorso strade d’amore».

Capitoli: 9 – Pennellate di tenerezza e forza; 10 – Lavoratore orante; 11– Condotto per mano da Dio; 12 – Tappe del processo; 13 – Stagioni di santi

Fratel Luigi possedeva l’arte del dominio di sé, era un lavoratore orante e faceva dell’umiltà la propria virtù.
La sua vita spirituale affondava le proprie radici nel mistero delle beatitudini evangeliche che all’interno della casa cottolenghina erano e sono possibili realizzare nella comunione coi fratelli.
La spiritualità in questo luogo di fede e di sofferenza più che una teoria è un’esperienza.

«In fratel Luigi non vi era traccia di spaccatura tra la vita attiva e la sua esperienza di contemplazione, tra il servizio nelle infermerie e quello all’altare. Egli non distingueva il Gesù sofferente celato nel povero da quello eucaristico sotto le spoglie sacramentali. La sua spiritualità era la Buona Notizia per i poveri».

L’11 febbraio 1989 nell’ambito delle pratiche per il processo canonico, a fratel Luigi si attribuiva il titolo di Servo di Dio. Nel 1993 si concludeva a Torino il processo per la beatificazione ed il 12 aprile 2003 Giovanni paolo II riconosceva le virtù eroiche esercitate emettendo il decreto della sua venerabilità.