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Intervista

Branca: «Se gli investimenti arrivano da Paesi islamici…»

Il responsabile diocesano del Dialogo con l’islam commenta i recenti interventi economici effettuati in città da parte di fondi e finanziarie di Paesi musulmani

di Pino NARDI

15 Marzo 2015

Pecunia islamica non olet? In passato lo si è visto con la Cina: si possono fare affari senza affrontare questioni come democrazia, libertà e diritti. Capita ora che – dopo Etihad che compra il 49% di Alitalia – un fondo del Qatar si compra un intero complesso immobiliare milanese di Porta Nuova e tutti plaudono all’investimento, che pure resta di origine islamica, ma in questo caso sembra un islam non problematico. Ne parliamo con Paolo Branca, islamista, responsabile del Dialogo con l’islam della Diocesi di Milano.

Professore, allora pecunia islamica non olet?
Qualcosa di positivo c’è, vuol dire che esiste qualcuno disposto a investire a Milano. Però bisogna anche vedere di chi si tratta. Del resto non abbiamo fatto mai molti problemi quando eravamo noi ad acquistare, soprattutto energia, petrolio, gas, riguardo alla tipologia dei nostri partner, se fossero più o meno paladini dei diritti umani o trattassero almeno decentemente le persone che vivono sul loro territorio, cittadini e immigrati. Adesso che siamo noi a vendere, questa mancanza di attenzione rischiamo di averla ancora di più, perché quando compri sei il più forte, ma quando vendi sei il più debole.

Si può allora dire che gli affari sono affari?
Diciamo che gli affari sono affari, ma non è indifferente con chi li si fa. Però oggi è ancora più difficile, perché tra Cina e certi Paesi del Medio Oriente, campioni dei diritti umani non se ne vedono molti all’orizzonte.

C’è il rischio che attraverso gli affari si consolidi una presenza di un certo tipo anche in altri settori della società?
Questa presenza di capitali arabi nel nostro Paese può anche far intuire che in futuro magari qualcuno privatamente farà cose che il settore pubblico non ha mai voluto o saputo favorire nel senso desiderato e auspicabile come si sarebbe dovuto fare».

Su impulso del Ministero dell’Interno ha preso avvio la nuova Consulta per l’islam italiano. È il quarto tentativo: sarà la volta buona?
Se le persone sono convocate dalle istituzioni per confrontarsi, in sé la cosa è sempre positiva. Il fatto che siamo alla quarta edizione fa sorgere legittimi dubbi. Era già stata affrontata dal ministro Pisanu, poi con la stessa formula da Amato, ma si era arenata proprio per le divergenze interne tra i vari gruppi islamici rappresentati. Maroni aveva cercato di fare una cosa diversa con esperti, un Comitato di tecnici che ha anche ben lavorato, ha prodotto documenti di cui però non sembra ci sia più traccia. Adesso si ricomincia da zero, un’altra volta su un’impostazione che era già fallita precedentemente. Temo che sia fatta un po’ per l’immagine, vista la situazione pesante a livello internazionale da non sottovalutare.

Questo può essere lo strumento giusto attraverso cui far passare un progetto di integrazione?
Ho i miei dubbi, anche perché l’Italia non è mai stato un Paese centralizzato come la Francia. Quindi se il Ministero favorisse intese locali, dato che sono tutte situazioni molto diverse con caratteristiche etniche o di orientamento differenti, si farebbe qualcosa di più utile che non discutere centralmente di massimi sistemi per non arrivare a nessun risultato concreto.