Si conclude la pubblicazione dei commenti per ogni articolo del Decalogo per gli oratori scritto dall'Arcivescovo Mario Delpini e presentato all'inizio dell'anno oratoriano 2018/2019. La riflessione su questi articoli, punto per punto, può continuare ad accompagnare il percorso ORATORIO 2020.

Don Cristiano Passoni
Assistente generale dell'Azione cattolica ambrosiana

decalogo_10_web

 

Dal Decalogo per gli oratori dell’Arcivescovo Mario Delpini

 


10. L’oratorio è per tutti, ma non per sempre. L’oratorio educa ragazzi e adolescenti per introdurre alla giovinezza cristiana, tempo di responsabilità da vivere negli ambienti adulti portando a compimento la propria vocazione.

 

Suona quasi male all’orecchio l’ultimo articolo del Decalogo per gli oratori del nostro Arcivescovo. Quel «per tutti, ma non per sempre» si ascolta a fatica. Tutti, come per molte cose della vita, vorremmo che il tempo si fermasse in ciò che abbiamo vissuto con straordinaria intensità, quasi si potesse fissare per sempre. Ciascuno ha la sua stagione, la propria “età dell’oro”, uno spazio incancellabile del cuore. C’è chi vorrebbe restare bambino, chi un adolescente, scanzonato e ribelle, chi un giovane con energie inesauribili, sicuro di sé e un poco sprezzante. Accanto ai tempi ci sono anche i luoghi: una cappella divenuta improvvisamente parlante, un campo da calcio impolverato, uno zaino in spalla, un palcoscenico precario con mezzi di fortuna, dove tutto è incominciato. E poi, come dimenticare il don, le grandi discussioni, gli amici sinceri, le prime luci scintillanti degli affetti? Persino, i primi Mondiali da protagonisti, con il primo album sotto braccio e le figurine da giocare, perché le tasche non permettevano molto agio, ma era bello così.

 

Da sempre ogni generazione si lamenta dello scorrere inesorabile del tempo e rimpiange il passato. Ma voler fermare il tempo, piuttosto che aiutare a trattenere con la giusta custodia il bene che ci ha fatto crescere, ci fa rifluire nel male oscuro della nostalgia che tutto congela in un regno solo apparentemente fatato. È il gelo di un idolo che imprigiona e non fa vivere. Per sé, si tratta di una storia antica che accompagna da sempre il cammino dell’uomo. Crescere è sempre impegnativo, anche se affascinante. Non si può trattenere tutto o fermare qualcosa. La tentazione della nostalgia, di frammenti dorati che non ritornano mai, rimane sempre da battere in ogni stagione della vita.

 

Del resto, a superare questa malattia dell’anima che paralizza, ha provveduto, non senza fatica, anche Gesù. Sul monte, il giorno della trasfigurazione i discepoli rimasero strabiliati. Tra l’imbarazzo e la paura, dichiararono di piantare delle tende, per non scendere più a valle. Ma gli fu detto che il loro posto non era quello. Sulle prime non ci rimasero bene, con ogni probabilità. E anche scendendo a valle, non erano così convinti. Ma, più avanti, compresero che era la cosa più giusta da fare. Lo straordinario di Gesù abitava a un soffio dai loro occhi e, davvero, non c’era bisogno d’altro che continuare il cammino. All’indomani della Pasqua, certo, ancora del tutto intontito da quanto aveva vissuto, Pietro provò a convincere i suoi fratelli a seguire il suo sconcerto. Non fu difficile trovare degli alleati. «Io vado a pescare», aveva detto. E, subito, gli altri a lui: «veniamo anche noi con te». Aveva solo provato a ripartire dalle ceneri inerti del loro passato. In tal modo, apparve un’idea ragionevole per tutti la normalità del tornare al vecchio mestiere. Ma la notte fu infruttuosa e deludente. Solo la novità di un mendicante, apparso misteriosamente sulla spiaggia, li persuaderà a rimettere le barche in mare per un nuovo, miracoloso viaggio. Similmente, agli albori della prima comunità cristiana, il giorno dell’estremo saluto di Gesù, una voce potente richiamò gli occhi dei discepoli incollati vanamente al cielo. Spostandosi a terra avrebbero intravisto l’inizio di una strada che prometteva di portarli fino ai suoi estremi confini del mondo.

 

I racconti si moltiplicano e ciascuno potrà trovare il suo. Ma, lo aveva detto il saggio Qoèlet: «C’è un tempo per ogni cosa». Il sapore di un istante o di un incontro ci mettono al mondo, arricchiscono la nostra identità. Ma non possono cristallizzarsi in una serie di eventi chiusi in se stessi. Piuttosto, diventano veri quando imbastiscono un discorso, aprono una storia o la riconoscono con meraviglia credente, carica di frutti.

 

Così è anche di quella singolare esperienza di vita che è l’oratorio: rimane nel cuore come un bene che portiamo per sempre con noi, ma non lo si può abitare per sempre. Il suo frutto è per un viaggio fino agli estremi confini della terra. Se si ferma prima, appassisce, e i confini della terra sono derubati del suo dono.

 

 

Ti potrebbero interessare anche: