Il Cardinale ha presieduto in Duomo la veglia di preghiera della Redditio Symboli: «Amate come se ogni momento fosse l'unico e l'ultimo. La prospettiva è l'eternità»

di Filippo MAGNI

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Una veglia che “è come una cattedrale”. Così il cardinale Angelo Scola ha definito la Redditio symboli, che anche quest’anno ha chiamato i 18-19enni della diocesi a riempire le navate del duomo di Milano.

La parabola del grano e della zizzania, icona dell’anno pastorale, ha costituito l’asse portante della serata. Ma fin dal principio non è potuto mancare un pensiero alla tragedia accaduta giovedì a Lampedusa: “Durante la veglia portiamo nel cuore le numerose vittime”, ha raccomandato don Bortolo Uberti, cappellano dell’Università degli studi. Per quello che il cardinale Scola definisce poi, nell’omelia, come “un dolore atroce, un dolore che solo la nostra superficialità di occidentali pasciuti può farci dimenticare”.

La veglia inizia con la lettera a Diogneto. È “il portone”, secondo l’efficace immagine utilizzata dall’arcivescovo, “che introduce alle tre navate di preghiera e riflessione”.
È il paradosso dei cristiani. Essere esempio di vita sociale mirabile, ma vivere da stranieri in patria. Partecipare a tutto come cittadini, ma distaccati come stranieri, scrive Diogneto.
“Perché? – si chiede il cardinale – Perché siamo destinati a vivere sempre, siamo destinati all’eternità, la nostra patria è il cielo”. Un cielo che però “è già qui, anticipato dalla potenza di Cristo che è qui in mezzo a noi”.

È la cornice che accompagna i ragazzi verso la prima navata: riconoscere che il seme è buono: lo comprendiamo possibile grazie alla nostra fede, alla fede dei santi e dei nostri padri, spiega Scola. Per poi aggiungere che allora “non guardiamo più al futuro smarriti, ma nell’abbraccio della definitività di Dio”. L’ha detto anche Papa Francesco ad Assisi, proprio oggi, ricorda l’arcivescovo: il rapporto con Gesù deve essere un rapporto vitale con la sua persona. “Dobbiamo – spiega Scola citando il pontefice – lasciarci guardare da Lui crocifisso. Una croce il cui messaggio finale è l’amore, la vita donata”.

È il collegamento con la “seconda navata”: la magnanimità del Signore. Lascia crescere insieme il seme e la zizzania. Un atto “di grande realismo”, commenta il cardinale. E se “senza il dolore del peccato non possiamo risorgere”, dobbiamo riconoscere che al massimo proviamo “un senso di colpa, ma non vero dolore”. E allora, completa il pensiero Scola, “lasciamoli crescere insieme, il male e il bene. Non perché non vogliamo evitare il male, ma perché riconosciamo che la nostra fragilità ha solo la possibilità della mendicanza, della supplica a Dio”. Un seminatore “dalla mano larga, che ci accompagna tenendoci una mano sotto al mento”.

La “terza navata è profondamente ispirata da un verso di Madeleine Delbrel: “Non può non andare colui che possiede il tuo Spirito, Signore”. 
Noi immaginiamo, sostiene Scola, “che per andare serva organizzare le strade, le strutture, le tappe. Ci chiediamo come costruire e come organizzare”. Madeleine Delbrel ci dice “che la tua via è semplicemente la vita. Devi andare sulla strada della tua vita, preziosa perché solo tua”, commenta il cardinale. Appena prima di chiedere “la grazia di questa semplicità che non è il disimpegno. Le tante belle cose organizzate da parrocchie, associazioni, movimenti, sono utili ma solo se rappresentano l’espressione del tuo andare nella tua vita”.

Concludendo l’articolata riflessione, l’arcivescovo di Milano chiede ai ragazzi che riprendano, personalmente e comunitariamente, i temi della veglia. E che verifichino la propria vita secondo tre ambiti: gli affetti, il lavoro e il riposo. “Il primo, in particolare, deve stimolarci a chiedere se vogliamo davvero imparare ad amare. Amare come se fosse l’unico e ultimo istante, vale a dire amare per l’eternità. Per sempre”.

Il lavoro, che per tanti è un problema. “Siete provati su questo punto – riconosce Scola -, è una gravissima responsabilità che portiamo noi delle generazioni che vi precedono: avervi tolto questo elemento della quotidianità”. Il suggerimento dell’arcivescovo è chiedere al Signore di “aiutarci a capire che nel lavoro realizziamo l’offerta di noi stessi. Lì si dà la vita, è la via in cui si comunica Gesù”.

Il riposo, infine, “è ri-trovarsi. Crea equilibrio tra gli affetti e il lavoro”.
La conclusione dell’omelia è un inno alla vitalità dei giovani. “Avete davanti l’avventura bella e buona della vita – afferma il cardinale – che dipende però dal gioco della vostra libertà. Mendicate la prospettiva di amare in modo giusto, lavorare rettamente, vivere il riposo in maniera sana”.

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