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In scena

Tolstoj e la rappresentazione della fine

Al Teatro dell'Arte fino al 30 gennaio "La morte di Ivan Il'ic", tra i racconti meglio riusciti dello scrittore russo

di Giovanni GUZZI Redazione

25 Gennaio 2010

Che la si fugga o la si ignori, cercando di rimuoverne anche solo l’idea, la morte, presto o tardi, fa sempre irruzione, per lo più inaspettata, sul palcoscenico della vita di ciascuno. È una rappresentazione in cui normalmente nessuno pensa mai, in sincera coscienza, di vedersi affidato il ruolo del protagonista.
«Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale», ripete Ivan Golovin Il’ic in La morte di Ivan Il’ic, uno dei racconti meglio riusciti di Tolstoj, nel quale si affronta il tema dell’uomo di fronte all’inevitabilità della morte. Un sillogismo dell’età classica che – continua il protagonista – va bene per l’umanità e va bene per Caio, ma non va affatto bene per lui stesso!
Non va affatto bene quando la malattia lo tocca direttamente insinuandosi in maniera subdola nel suo corpo, che ancora sente perfettamente sano. Una malattia che, poco a poco, scardina la vita ordinata di questo magistrato di San Pietroburgo e della sua famiglia: erroneamente convinti che le regole dettate dalle convenzioni sociali fossero un ombrello para calamità, un salvacondotto che potesse garantirli immuni da ogni turbamento.
Dal racconto il giovane regista Claudio Autelli ha tratto un allestimento teatrale (in cartellone al Teatro dell’Arte fino al 30 gennaio) che, fin dall’ingresso in sala, con gli attori già presenti in scena, immobili, a sipario aperto, dice agli spettatori: «Qui non si recita una finzione, è la tua vita che stiamo per rappresentare, non starai comodo sulla tua poltrona in platea perché non potrai chiamarti fuori da questa tragica realtà».
Subito dopo, un valzer vorticoso dà il via allo spettacolo. Ivan balla con la moglie, attorno a loro roteano gli altri personaggi in un crescendo illuminato da una scena rossa che, d’improvviso, si fa grigia, con una sorta di macchia verdognola sullo sfondo, quando Ivan crolla a terra, quasi con violenza, per poi rialzarsi e cominciare col dottore, sempre tanto saggio (e altrettanto distaccato), il dialogo della scoperta della malattia insorta in lui.
Come in una sorta di manifesto programmatico sono così cromaticamente delineati i due ambiti scenografici nei quali lo spettacolo è suddiviso: la luminosità rossa, del sangue che scorre nelle vene di una vita piena di energia e salute, e la penombra verdastra della malattia.
Due colori che si alternano, si rincorrono, si intrecciano, si rubano lo spazio. Con il primo che progressivamente arretra fino a lasciare campo libero al secondo che scolora a sua volta nel bianco asettico, evocativo di una stanza d’ospedale, quando il divano di casa è diventato il letto dell’agonia del protagonista e le tende che definiscono la scena lo rinchiudono in una sorta di isolamento dai familiari.
Il progressivo disfacimento di Ivan è sottolineato dal servitore che, inizialmente, gli porge il mantello, lo cosparge di profumo, gli tampona i baffi orgogliosi prima delle sue uscite in società. Lo riveste con la vestaglia da camera alle prime avvisaglie della malattia… e alla fine svolge le mansioni proprie dell’assistenza necessaria ad un corpo che ormai non ha più autosufficienza e che, nella sua disperazione di sconfitto dal male – che in un primo momento si illudeva di poter vincere – ha perso ogni parvenza di dignità e pudore.
L’opera, nella recitazione intensa ed energica del protagonista, come nei toni volutamente forzati e striduli della moglie e nell’ossessiva meccanica ripetitività gestuale della figlia, è una continua tensione che sfocia nell’urlo “muto” del protagonista in punto di morte per trovare, infine, riposo in un abbraccio riconciliatore. Che la si fugga o la si ignori, cercando di rimuoverne anche solo l’idea, la morte, presto o tardi, fa sempre irruzione, per lo più inaspettata, sul palcoscenico della vita di ciascuno. È una rappresentazione in cui normalmente nessuno pensa mai, in sincera coscienza, di vedersi affidato il ruolo del protagonista.«Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale», ripete Ivan Golovin Il’ic in La morte di Ivan Il’ic, uno dei racconti meglio riusciti di Tolstoj, nel quale si affronta il tema dell’uomo di fronte all’inevitabilità della morte. Un sillogismo dell’età classica che – continua il protagonista – va bene per l’umanità e va bene per Caio, ma non va affatto bene per lui stesso!Non va affatto bene quando la malattia lo tocca direttamente insinuandosi in maniera subdola nel suo corpo, che ancora sente perfettamente sano. Una malattia che, poco a poco, scardina la vita ordinata di questo magistrato di San Pietroburgo e della sua famiglia: erroneamente convinti che le regole dettate dalle convenzioni sociali fossero un ombrello para calamità, un salvacondotto che potesse garantirli immuni da ogni turbamento.Dal racconto il giovane regista Claudio Autelli ha tratto un allestimento teatrale (in cartellone al Teatro dell’Arte fino al 30 gennaio) che, fin dall’ingresso in sala, con gli attori già presenti in scena, immobili, a sipario aperto, dice agli spettatori: «Qui non si recita una finzione, è la tua vita che stiamo per rappresentare, non starai comodo sulla tua poltrona in platea perché non potrai chiamarti fuori da questa tragica realtà».Subito dopo, un valzer vorticoso dà il via allo spettacolo. Ivan balla con la moglie, attorno a loro roteano gli altri personaggi in un crescendo illuminato da una scena rossa che, d’improvviso, si fa grigia, con una sorta di macchia verdognola sullo sfondo, quando Ivan crolla a terra, quasi con violenza, per poi rialzarsi e cominciare col dottore, sempre tanto saggio (e altrettanto distaccato), il dialogo della scoperta della malattia insorta in lui.Come in una sorta di manifesto programmatico sono così cromaticamente delineati i due ambiti scenografici nei quali lo spettacolo è suddiviso: la luminosità rossa, del sangue che scorre nelle vene di una vita piena di energia e salute, e la penombra verdastra della malattia.Due colori che si alternano, si rincorrono, si intrecciano, si rubano lo spazio. Con il primo che progressivamente arretra fino a lasciare campo libero al secondo che scolora a sua volta nel bianco asettico, evocativo di una stanza d’ospedale, quando il divano di casa è diventato il letto dell’agonia del protagonista e le tende che definiscono la scena lo rinchiudono in una sorta di isolamento dai familiari.Il progressivo disfacimento di Ivan è sottolineato dal servitore che, inizialmente, gli porge il mantello, lo cosparge di profumo, gli tampona i baffi orgogliosi prima delle sue uscite in società. Lo riveste con la vestaglia da camera alle prime avvisaglie della malattia… e alla fine svolge le mansioni proprie dell’assistenza necessaria ad un corpo che ormai non ha più autosufficienza e che, nella sua disperazione di sconfitto dal male – che in un primo momento si illudeva di poter vincere – ha perso ogni parvenza di dignità e pudore.L’opera, nella recitazione intensa ed energica del protagonista, come nei toni volutamente forzati e striduli della moglie e nell’ossessiva meccanica ripetitività gestuale della figlia, è una continua tensione che sfocia nell’urlo “muto” del protagonista in punto di morte per trovare, infine, riposo in un abbraccio riconciliatore. La scheda – Drammaturgia: Raffaele RezzonicoRegia: Claudio AutelliInterpreti: Giulio Baraldi, Fabrizio Lombardo, Valentina Picello, Giulia Viana, Francesco VillanoProduzione: CRT Centro di Ricerca per il Teatro