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Tennis

Wimbledon, un sogno sull’erba

L'intramontabile magia del torneo londinese

di Leo GABBI Redazione

2 Luglio 2010

Il tempio resta quello. Non bastano fiumi di dollari, marketing esasperato e tv invadenti a far lievitare la concorrenza: qui, nella sua pace elegante e discreta, da 130 anni Wimbledon continua a guardare tutti gli altri tornei di tennis dall’alto in basso. Sono passate mode e campioni, slogan e rivoluzioni, ma quell’erba resta il sogno di una vita per chi impugna una racchetta e gioca sotto rete. Esserci è un must per chiunque voglia partecipare a un evento sportivo mondano, come Ascot per l’ippica o il Gp di Montecarlo per la Formula 1. Così, domenica 4 luglio, giorno della finale maschile, il mitico Centre Court diventerà il centro del mondo sportivo, oscurando per qualche ora anche i Mondiali di calcio sudafricani.
Passano, infatti, miti e fenomeni, ma per chi ama il tennis Wimbledon resta un posto magico, dove speaker e arbitri chiamano ancora gli uomini gentlemen (e non men come di consueto) e le donne ladies (e non women), e dove il colore bianco continua a farla da padrone negli indumenti dei giocatori. Le regole qui paiono immutabili, magari un po’ riviste rispetto a quel cartello di fine Ottocento issato sulla piccola club house, che suggeriva ai gentiluomini «di non giocare in maniche di camicia quando le dame sono presenti».
Etichetta e stile, quindi, ma anche sostanza tecnica hanno sempre confermato Wimbledon come il più famoso tra i quattro Slam e dunque il più famoso dei tornei del mondo. Qui spesso i grandi campioni si esaltano fornendo prestazioni memorabili e passando alla storia (come i tanti Borg-Connors, il Borg-McEnroe della finale 1980 o il Nadal-Federer della finale 2008), o restano scolpiti nella memoria dei fans per il numero dei trionfi, come Pete Sampras e Martina Navratilova, i più vittoriosi di sempre con rispettivamente sette e nove trofei. Ma anche chi non ha scritto il suo nome sull’albo d’oro – come Ken Rosewall, che giocò quattro finali nell’arco di vent’anni, perdendole tutte – è riuscito a diventare immortale per la sua sfortuna.
Le tonalità verde e viola qui campeggiano ovunque: dall’erba ai fiori, dalle divise di giudici e raccattapalle alle vernici dei cancelli, sono il biglietto da visita per chi vuole avvicinarsi a questa ultracentenaria saga sportiva.
Le sorprese, su una superficie infida per i non erbivori, sono sempre in agguato. Ne sanno qualcosa, essendo già usciti di scena, in campo maschile Roger Federer, vincitore di sei delle ultime sette edizioni, e in campo femminile Venus Williams e le belghe Henin e Clijsters (tutte già numero 1 al mondo). È durata lo spazio di un amen anche l’avventura di Francesca Schiavone, fresca vincitrice del Roland Garros: apparsa scarica dopo il trionfo parigino, è capitolata al primo turno contro l’abbordabile (sulla carta) russa Dushevina.
Intanto un record il torneo di quest’anno ce l’ha già regalato: si tratta della partita di tennis più lunga della storia, durata in pratica tre giorni e conclusasi oltre le 11 ore di gioco, tra il francese Mahut e l’americano Isner, che ha vinto. Un match da Guiness dei primati. Il tempio resta quello. Non bastano fiumi di dollari, marketing esasperato e tv invadenti a far lievitare la concorrenza: qui, nella sua pace elegante e discreta, da 130 anni Wimbledon continua a guardare tutti gli altri tornei di tennis dall’alto in basso. Sono passate mode e campioni, slogan e rivoluzioni, ma quell’erba resta il sogno di una vita per chi impugna una racchetta e gioca sotto rete. Esserci è un must per chiunque voglia partecipare a un evento sportivo mondano, come Ascot per l’ippica o il Gp di Montecarlo per la Formula 1. Così, domenica 4 luglio, giorno della finale maschile, il mitico Centre Court diventerà il centro del mondo sportivo, oscurando per qualche ora anche i Mondiali di calcio sudafricani.Passano, infatti, miti e fenomeni, ma per chi ama il tennis Wimbledon resta un posto magico, dove speaker e arbitri chiamano ancora gli uomini gentlemen (e non men come di consueto) e le donne ladies (e non women), e dove il colore bianco continua a farla da padrone negli indumenti dei giocatori. Le regole qui paiono immutabili, magari un po’ riviste rispetto a quel cartello di fine Ottocento issato sulla piccola club house, che suggeriva ai gentiluomini «di non giocare in maniche di camicia quando le dame sono presenti».Etichetta e stile, quindi, ma anche sostanza tecnica hanno sempre confermato Wimbledon come il più famoso tra i quattro Slam e dunque il più famoso dei tornei del mondo. Qui spesso i grandi campioni si esaltano fornendo prestazioni memorabili e passando alla storia (come i tanti Borg-Connors, il Borg-McEnroe della finale 1980 o il Nadal-Federer della finale 2008), o restano scolpiti nella memoria dei fans per il numero dei trionfi, come Pete Sampras e Martina Navratilova, i più vittoriosi di sempre con rispettivamente sette e nove trofei. Ma anche chi non ha scritto il suo nome sull’albo d’oro – come Ken Rosewall, che giocò quattro finali nell’arco di vent’anni, perdendole tutte – è riuscito a diventare immortale per la sua sfortuna.Le tonalità verde e viola qui campeggiano ovunque: dall’erba ai fiori, dalle divise di giudici e raccattapalle alle vernici dei cancelli, sono il biglietto da visita per chi vuole avvicinarsi a questa ultracentenaria saga sportiva.Le sorprese, su una superficie infida per i non erbivori, sono sempre in agguato. Ne sanno qualcosa, essendo già usciti di scena, in campo maschile Roger Federer, vincitore di sei delle ultime sette edizioni, e in campo femminile Venus Williams e le belghe Henin e Clijsters (tutte già numero 1 al mondo). È durata lo spazio di un amen anche l’avventura di Francesca Schiavone, fresca vincitrice del Roland Garros: apparsa scarica dopo il trionfo parigino, è capitolata al primo turno contro l’abbordabile (sulla carta) russa Dushevina.Intanto un record il torneo di quest’anno ce l’ha già regalato: si tratta della partita di tennis più lunga della storia, durata in pratica tre giorni e conclusasi oltre le 11 ore di gioco, tra il francese Mahut e l’americano Isner, che ha vinto. Un match da Guiness dei primati.