Share

Ricordo

“Il calcio unisce, il razzismo uccide”

Un torneo giovanile dedicato ad Arpad Weisz, ebreo-ungherese,
grande allenatore degli anni Trenta, morto ad Auschwitz

di Leo GABBI

7 Ottobre 2013

Il pallone continua a discutere di moviole impazzite, fuorigioco non dati e follie assortite sugli spalti: ultimi in ordine di tempo i cori beceri e razzisti indirizzati a giocatori e tifosi avversari che hanno causato il primo vero giro di vite nella storia dei nostri campionati, con la chiusura di interi pezzi di stadio (le curve ultrà innanzitutto). Eppure, rispetto a queste brutture, ci sono anche le cose belle da far emergere.

C’è chi ha fatto in passato qualcosa di grande: si tratta di Arpad Weisz, ebreo-ungherese, completamente sconosciuto alla stragrande maggioranza dei tifosi. Eppure negli anni Trenta, Weisz fu una figura mitica come allenatore, vincendo scudetti con Bologna e Inter, e soprattutto facendo esordire in prima squadra nell’allora Ambrosiana un giovanotto di belle speranze chiamato Peppino Meazza.

Un brutto giorno, però, le vicende del football si scontrarono con la barbarie che sconvolse il mondo: di Weisz si persero le tracce e solo dopo molti anni qualcuno ricordò che quel signore così distinto, un mago ante-litteram della panchina, era morto nelle camere a gas naziste di Auschwitz. È stato bello che nelle scorse settimane, l’Inter, il Bologna e il Milan abbiano voluto ricordare con un triangolare giovanile all’Arena di Milano, teatro dei suoi trionfi, la figura di questo maestro di calcio e di vita. È importante anche che la Figc abbia deciso di istituire il torneo giovanile dal titolo “Il calcio unisce, il razzismo divide”, dedicato proprio a Weisz. Così i ragazzi potranno meditare, oltre che giocare.

Oggi chi ulula dagli spalti cori irripetibili contro il diverso (nero, straniero o meridionale che sia), non riesce neppure immaginare chi, a costo della vita, combatté anche per lui, per il suo diritto di esprimersi in ogni contesto, anche allo stadio, seppur in modi così censurabili.

Tornando ad Arpad, negli anni Trenta viaggiava per il mondo e Milano lo aveva attratto. Allenatore, metodico, studioso di tattica come pochi: fu il primo a vincere un campionato italiano a girone unico nel 1929-30 con l’Inter, prima di portare il Bologna sul tetto d’Europa conquistando a Parigi, nel giugno 1937, dopo aver battuto Sochaux, Slavia (semifinale) e Chelsea (finale) il Trofeo dell’Esposizione, una sorta di Champions League dell’epoca (da allora si coniò il celebre motto, tra i tifosi rossoblù: «Bologna, che tremare il mondo fa…»).

L’emanazione delle leggi razziali lo spiazzò completamente, lui che era abituato a studiare sul campo ogni mossa dall’avversario, tradito invece da quella infame decisione, che costrinse lui e la sua famiglia all’espatrio, e quindi, in una rincorsa sempre più affannosa all’inizio del secondo conflitto mondiale, prima a Parigi e poi in Olanda. Un mattino, però, li vennero a prendere: lui, la moglie e i suoi due bambini. E il lager fece il resto.