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Negli stadi e nei funerali

Basta con gli applausi:
ridateci il silenzio…

Il minuto di silenzio è oggi un minuto violato, violentato, tradito, calpestato. È un intruso da emarginare, un imbarazzo da superare, un nemico da aggirare con la banalità di un applauso

di Vincenzo PASTORE

8 Ottobre 2013

Lo chiamano minuto di silenzio o di raccoglimento: sessanta secondi in cui commemorare chi è scomparso, rivolgendo una preghiera lassù per chi crede o un semplice pensiero quaggiù per chi non crede. Il silenzio, appunto, che troppo spesso lascia spazio alla gestualità tipica di uno spettacolo (gli applausi) o alla manifestazione più becera della maleducazione e dell’inciviltà (cori, fischi e quant’altro). Domenica l’ultimo emblematico caso.

La tragedia dei migranti di Lampedusa non ha lasciato indifferente lo sport italiano, oggi crogiuolo di culture ed etnie diverse, figlie anche di quei barconi della speranza che approdano sulle coste della penisola. Dopo la tragedia il Coni aveva stabilito il canonico minuto di raccoglimento per tutte le gare sportive del fine settimana. In campo, dove il copione prevede gli atleti disposti a capo chino e il fischio dell’arbitro a scandire l’inizio e la fine dei sessanta secondi. E sulle tribune, dove il pubblico lascia per un attimo da parte le ansie e le aspettative dell’evento per alzarsi in piedi e vivere quell’istante. Sarebbe questa la cornice in un Paese civile. Da noi, invece, le sfumature prendono il sopravvento.

Fari puntati, nell’Italia calciocentrica, sul mondo del pallone. Serie B, Brescia, prima del match tra i padroni di casa e il Palermo, gli ultras locali intonano il coro «Forza Brescia alè». Serie A, Roma (Lazio-Fiorentina), i tifosi biancocelesti urlano «Forza Lazio alè». Torino, Juventus Milan, la curva bianconera sente il richiamo patriottico e dà il via a Fratelli d’Italia. A Bologna, invece, prima della sfida tra i rossoblù e il Verona, i supporter scaligeri vogliono fare le cose per bene. Dopo il fischio dell’arbitro, cantano Io credo risorgerò, che è un celebre canto liturgico. Se non fosse per il mancato rispetto del silenzio, l’intento sarebbe anche lodevole. Ma quegli stessi tifosi sono saliti agli onori delle cronache per episodi di razzismo e, proprio ieri, per essersi resi protagonisti di alcuni tafferugli con gli ultras bolognesi che hanno ritardato di venti minuti l’inizio della gara. Non solo. Facendo un rapido giro sulweb, si scovano alcuni precedenti, in cui i veronesi hanno intonato quel canto anche durante le partite.

Cosa c’entri un canto religioso e funebre con una partita di calcio resta un mistero, ma restituisce la cifra dello scherno, dell’intolleranza e della maleducazione che fanno capolino durante i minuti di silenzio. O nei funerali, soprattutto di gente famosa, in cui il feretro è accompagnato dagli applausi scroscianti della folla. Mentre nelle esequie dei comuni mortali il clima di raccoglimento torna, giustamente, a regnare sovrano. Come se esistessero morti di serie A e morti di serie B. Il silenzio, invece, è come una livella, direbbe Totò: mette tutti sullo stesso piano, conferisce quella massima forma di rispetto a cui probabilmente non siamo più abituati nelle nostre giornate caotiche e rumorose.

Nell’Italia del giorno dopo, delle bandiere a mezz’asta e del lutto al braccio, della simbologia funerea a intermittenza come rito purificatore delle nostre coscienze, il minuto di silenzio è oggi un minuto violato, violentato, tradito, calpestato. Non c’è spazio per una breve e silenziosa memoria di quel che è stato. Non c’è spazio per una pausa, per una fermata, per una riflessione. Il silenzio è un intruso da emarginare, un imbarazzo da superare, un nemico da aggirare con la banalità di un applauso. Con l’insensatezza di un coro o di un fischio. A cui magari seguono altri applausi per coprire gli incivili. Altro rumore, altro caos, altra violenza. Quando invece bisognerebbe provare che effetto fa associare la preghiera e la memoria al suono del silenzio.