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Ragazzi rom al mare

La Casa della Carità ne ha portati 100 in vacanza. Don Massimo Mapelli: «Un'esperienza di gruppo e di condivisione con adulti non appartenenti alla loro famiglia, in un luogo dove nascono relazioni profonde»

15 Luglio 2008

15/07/2008

di Silvio MENGOTTO

Dal 2004 la Casa della Carità porta i ragazzi rom in vacanza al mare nella località toscana di Pomaia, alloggiando presso una casa che la diocesi di Pisa ha messo loro a disposizione. Lo scorso giugno, in due turni, insieme ad animatori ed educatori, hanno soggiornato 100 ragazzi rom provenienti dagli ex campi di Capo Rizzuto, via S. Dionigi, da Opera, dal campo autorizzato di via Idro e un gruppo di via Triboniano. Tra i promotori e animatori, don Massimo Mapelli.

Come è nata l’idea della vacanza al mare per i giovani e adolescenti rom?
È iniziata quattro anni fa. Come mandato dalla Casa della Carità abbiamo ricevuto quello di lavorare anche nelle favelas e baraccopoli nella periferia di Milano. Per la prima volta nel 2004 abbiamo accompagnato al mare i bambini di via Capo Rizzuto, che avevano subìto lo sgombero e quelli del campo di via S. Dionigi, sgomberato nel settembre 2007. Seguendo da vicino le famiglie e la loro situazione scolastica, ci è sembrato giusto dare anche a questi ragazzi, che spesso vivono nelle baracche, l’opportunità di fare un’esperienza di gruppo al mare.

Da un punto di vista educativo c’è stato un salto notevole, perché nella cultura rom la vacanza non è nella loro normalità…
È vero, soprattutto l’idea della vacanza di gruppo. È stato fatto per il senso di provvisorietà in cui abitavano i ragazzi rom, per uscire da luoghi che sono problematici dal punto di vista igienico-sanitario. Molti di questi ragazzi hanno visto il mare per la prima volta. L’iniziativa serve per vivere alcuni giorni in un luogo diverso e approfondire il legame educativo con loro e con le famiglie che si sono fidate nell’affidarci i propri figli. Per una persona che vive in una baraccopoli non è così scontato consegnare il figlio.

Quali sono le sue riflessioni sulla recente esperienza?
Permette a diversi ragazzi di provare a misurarsi in un’esperienza di gruppo, di condivisione con adulti non appartenenti alla loro famiglia, in un luogo completamente diverso dove nascono relazioni profonde. C’è anche la diversità tra i ragazzi e gli adolescenti. I piccoli vivono per la prima volta la scoperta del mare, lo staccarsi dalla famiglia, dalla casa, dalla compagnia con altri ragazzi. Gli adolescenti esprimono diverse realtà. Alcuni ragazzi hanno fatto gruppo tra loro, mettendo in scena uno spettacolo teatrale realizzato nella piazza di Pomaia. Agli spettatori presenti abbiamo detto che gli attori erano ragazzi rom ai quali bisognerebbe prendere le impronte digitali. Se li vedete qui a teatro e li applaudite non sono quei mostri che sembrano.

Quali sono le sue valutazioni?
Le famiglie del campo di via Idro per la prima volta hanno concesso che una figlia adolescente potesse fare un’esperienza separata, da sola, come tutti i suoi coetanei. Incontrandosi con altri sono scattati anche gli innamoramenti, come succede in ogni gruppo di adolescenti. Le ragazze hanno respirato e vissuto, ritornando a casa sembrava loro di aver ricevuto una boccata di ossigeno che ancora continua. Abbiamo verificato come alcune dinamiche sono identiche – soprattutto nell’attuale esperienza di educatore – sia in oratorio, sia in una comunità per minori, si tratti di bambini rom o no.

In quattro anni c’è stato qualche episodio spiazzante?
Sin dall’inizio è capitato un episodio positivo che ha spiazzato e continua a farlo. Mi riferisco alla capacità degli adolescenti (16-17 anni) di mettersi insieme per realizzare una recita. Se chiediamo ai ragazzi italiani della stessa età di fare una recita la risposta sarebbe negativa. Qui invece c’è questa voglia di giocarsi, essere protagonisti. Un fatto che ci spiazza continuamente, come la loro semplicità.

Qualche prospettiva per il futuro?
C’è un lungo cammino da fare con gli adolescenti. Dicono che aiuterebbe tutti se ci fosse uno scambio più forte tra loro che vivono in questi luoghi con altri che abitano nelle nostre città e negli oratori. Per quanto mi riguarda, i ragazzi rom che sono stati a Pomaia sono pronti a vivere questo scambio; anzi, ne hanno bisogno per non rinchiudersi su modelli che respirano solo al loro campo.