Sirio 26-29 marzo 2024
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Ricordo

Grazie Enzo Jannacci,
poeta dei senza fissa dimora

Il cantautore milanese si è spento venerdì 29 marzo all'età di 77 anni. Da tempo soffriva di un male incurabile. Iniziò la carriera negli anni Cinquanta unendo all'attività musicale quella di attore e cabarettista. Apprezzato jazzista, era noto al grande pubblico per aver scritto e interpretato brani come "Vengo anch'io” e “El purtava i scarp de' tenis”. Fu proprio quest'ultimo a dare il "la” alla testata “Scarp de' tenis”, giornale di strada della Caritas ambrosiana scritto e venduto da clochard

di Paolo BRIVIO direttore di Scarp de' tenis”

30 Marzo 2013

È stato il nostro “padre battezzatore”. Perché le scarpe da tennis che compaiono sin dal primo numero (era il 1994) nella nostra testata, erano quelle indossate dal barbun avviato sullo stradone per l’Idroscalo, che lui aveva cantato in una Milano ormai consegnata ai ricordi, una città in tumultuosa trasformazione, tanto ottimista da saper guardare con tolleranza e con (relativa) simpatia anche ai marginali e agli originali che la popolavano, senza avvertire l’istintiva, impaurita inclinazione allo sgombero, alla rimozione, alla criminalizzazione, che si sarebbe fatta largo nei decenni successivi.
Enzo Jannacci aveva scritto El purtava i scarp de’ tenis (unanimemente riconosciuto come uno dei suoi capolavori) nel 1964, insieme a Dario Fo. Ed esattamente tre decenni dopo Pietro Greppi, pubblicitario milanese, aveva avuto l’idea di utilizzare l’immagine delle scarpe da ginnastica per dare nome al giornale di strada, scritto e venduto da persone senza dimora, che aveva fondato a Milano. Il riferimento al barbun jannacciano era quasi obbligato, anche se ne frattempo il “popolo della strada”, all’ombra del Duomo, aveva cominciato a cambiare connotati: niente più personaggi in fuga dalle convenzioni sociali e in cerca di un’anarchica, romantica libertà, niente più spostati o diseredati di quartiere o di paese, ma una schiera sempre più ampia di esclusi dai processi economici, di soggetti segnati da pesanti forme di dipendenza e di disagio psichiatrico, di immigrati in attesa di un inserimento più stabile nella società italiana.
Mentre Greppi (era il 1996) trasferiva la testata a Caritas Ambrosiana, che in 17 anni ne avrebbe fatto un progetto sociale e di comunicazione oggi presente in tredici città d’Italia, capace di dare lavoro, reddito e supporto sociale (nel 2012) a 150 persone gravemente emarginate, Jannacci aveva accettato che le scarpe da tennis continuassero a camminare attraverso l’esperienza dello street magazine, al quale avrebbe concesso – nel corso degli anni – un paio di interviste, e che avrebbe continuato ad acquistare dallo storico venditore che stazionava nei pressi della sua casa milanese, in zona Città Studi, al quale non lesinava qualche chiacchiera e generose mance.
Ma il suo contributo alla linea editoriale e all’esperienza sociale del giornale, Jannacci l’aveva dato proprio con la canzone del 1964. Esattamente un anno fa, in occasione della morte di Lucio Dalla, autore dell’altrettanto memorabile Piazza Grande, l’editoriale di Scarp si interrogava sul perché «il barbùn (…) ha diritto di cittadinanza molto più in romanzi, pièce teatrali, canzoni, film e affini, che nei meccanismi di rappresentanza politica e di tutela sociale che regolano la nostra convivenza civile». E si rispondeva avanzando «il sospetto che nel povero estremo il poeta – ne sia consapevole o meno – scorga una sorta di immagine “pura” dell’umano. Spogliata da ogni orpello consumistico, da ogni ansia proprietaria. Come chiedersi: che ne resta (o che ne è davvero) dell’uomo, se togliamo gli averi, gli status symbol e lo status sociale, il lavoro, persino la casa? Quel che resta (…) è “un bel sogno d’amore”. Rincorso “già da tempo”. (…) Ed echeggiato da quel che prova, intimamente, l’omologo bolognese, attorno al quale ruota l’intera Piazza Grande: “A modo mio, avrei bisogno di carezze. E di sognare anch’io. E di pregare Dio”».
Insomma, i poeti – e Jannacci di certo lo è stato – cantando la vita degli ultimi, anche con qualche ingenuità, ma con ammirevole umanità, ci aiutano a effettuare una «scoperta minima, ma a suo modo commovente: forse la persona senza dimora (persona, prima che senza dimora) rivela efficacemente, nella sua “nudità” patrimoniale e nella sua invisibilità sociale, che l’umano resiste (esiste) là dove resistono attese d’affetti, desideri di relazioni, slanci dello spirito. Aperture verso l’altro, orientamenti verso l’alto. Non è un tetto sulla testa, e tantomeno il conto in banca, a definire il valore autentico di un’esistenza: sogni carezze e preghiere sono molto più irrinunciabili». Per fortuna, ogni tanto, c’è un poeta che ci riporta all’essenziale. All’interiorità: la dimora che tutti condividiamo, anche quando non abbiamo dimora. Anche quando camminiamo su un anonimo stradone, verso l’Idroscalo del nostro smarrimento.