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Testimonianza

«Diciamo che siamo in guerra perché non abbiamo altre parole»

Damiano Rizzi, presidente della ong Soleterre che guida l'equipe di psicologi impegnati nei reparti Covid-19 del Policlinico San Matteo di Pavia: «Uno degli aspetti che più mette in crisi il personale è che non hanno tempo per conoscere i pazienti, lavorano solo sui corpi»

di Dario PALADINI Redattore sociale

23 Marzo 2020

«Mamma, sei sempre nei nostri cuori, ti pensiamo sempre»: poche parole, di una figlia alla madre anziana. Le ha scritte su un foglietto e l’ha affidato a una delle psicologhe che lavorano nei reparti Covid-19 del Policlinico San Matteo di Pavia. «Era da due settimane che questa figlia non vedeva né parlava con la madre ricoverata. È una malattia devastante perché isola le persone e crea un vuoto di comunicazione. Il biglietto restituisce concretezza e fisicità al rapporto», spiega Damiano Rizzi, psicologo clinico e presidente della Fondazione Soleterre, ong che da poco più di una settimana ha avviato un progetto di assistenza psicologica a medici, infermieri, pazienti e famigliari. Soleterre già da alcuni anni è presente al San Matteo nel reparto di oncologia pediatrica. Gestisce o supporta centri ospedalieri e strutture sanitarie in Ucraina, Uganda, Marocco, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana e Costa d’Avorio.

Con l’emergenza Covid-19 ha deciso di schierare dieci psicologi nei reparti di rianimazione, pronto soccorso e malattie infettive del San Matteo e altri cinque offrono assistenza da remoto ai famigliari dei pazienti. «Ci sono così tanti pazienti che medici e infermieri fanno fatica a conoscerli. Non riescono a creare quel rapporto medico-paziente-famigliare che finora caratterizzava il loro lavoro. Non hanno il tempo per conoscere la storia dei pazienti. E questo è uno degli aspetti che più mette in crisi il personale di questi reparti: lavorano solo sui corpi. Cominciano a sentire la stanchezza, anche se ho visto un ospedale ben organizzato, con professionisti che stanno dedicandosi totalmente e con grande lucidità».

Il compito degli psicologi è anche quello di ricostruire le storie dei pazienti, tenendo i contatti con i famigliari. «I parenti si sentono in colpa perché pensano di essere stati il veicolo del contagio. E spesso la situazione precipita nel giro di poche ore. Non c’è quindi il tempo per condividere le scelte terapeutiche. E la cosa più straziante è che tutto questo avviene senza la possibilità di vedere e toccare il proprio famigliare ricoverato».

Nei reparti Covid-19 tutti sono bardati. «Non vedi i volti. La comunicazione tramite il corpo, importantissima nei rapporti, non c’è. Puoi contare solo sulle parole e sul tono della voce». I pazienti intubati o con il casco per la respirazione non possono comunicare con nessuno, vedono solo corpi completamente coperti e volti mascherati, non hanno notizie dei loro famigliari. Per questo un  foglietto scritto a mano, di cui magari riconosci la calligrafia, diventa uno squarcio di luce in una situazione drammatica.

E poi c’è la morte. La notizia ai famigliari arriva via telefono. Magari sono stati informati qualche ora prima che la situazione era disperata. E non c’è solo lo strazio di non essere stati vicini alla madre, al padre, al figlio, alla figlia, al fratello o alla sorella negli ultimi istanti della sua vita. «Ci sono salme in attesa da giorni di essere cremate – racconta Damiano Rizzi-. Il fatto di non sapere dove sia il corpo di una persona a noi cara è un peso umanamente inaccettabile. Per ciascuno di noi la morte di un parente o di un amico ha una dimensione interna e una esterna. La dimensione esterna, ossia il corpo, la bara e il funerale, rende vera e reale la situazione che stiamo vivendo. Non basta che ci abbiano detto che quella persona è morta. Ancora oggi le madri di Srebrenica (Bosnia) stanno cercando le ossa dei loro figli massacrati nel 1995 e sepolti nelle fosse comuni. Il rito funebre serve a dare significato alla nostra vita. E la situazione di queste settimane è destabilizzante per tutti, perché sentiamo che se una società non riesce a prendersi cura dei morti potrebbe non essere in grado di prendersi cura dei vivi. Senza una degna sepoltura dei nostri morti non riusciamo a sentirci umani come vorremmo».

Soleterre prevede di incrementare il numero degli psicologi nei reparti Covid-19. «Appena abbiamo lanciato il progetto molti colleghi hanno aderito subito e con entusiasmo». Ci sarà bisogno di loro per molto tempo, anche quando il picco dei contagiati e dei morti sarà stato superato e sembrerà di intravvedere l’uscita dal tunnel. «Credo che stiamo vivendo un’esperienza unica -conclude il presidente di Sole Terre-. Diciamo che siamo in guerra, ma solo perché non abbiamo altre parole per descrivere quel che sta succedendo».