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Intervista

«Covid in carcere, come rispondiamo all’emergenza»

Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, fa il punto sulla pandemia vissuta dietro le sbarre. Ammette: «La chiusura è stata pressoché totale, siamo tornati indietro di quasi 50 anni». Ma sottolinea gli sforzi fatti su più fronti, dalla scuola alle funzioni religiose. E aggiunge: «L’introduzione delle videochiamate è stata una sorpresa»

di Luisa Bove

10 Gennaio 2021
Pietro Buffa

Non era ancora esplosa la pandemia, la sera del 22 febbraio 2020, quando Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia convocò d’urgenza direttori e comandanti. «Di fronte a situazioni del genere – dice oggi – bisogna immaginare lo scenario più buio». Non perse tempo e insieme ai suoi collaboratori predispose linee guida approvate addirittura dall’Oms: «Abbiamo realizzato prima a San Vittore e poi a Bollate reparti specializzati, non per la cura perché le persone malate sono state ricoverate in ospedale, ma per i positivi, cercando soluzioni per collocarli in modo da ridurre la possibilità di contagio».

E ora com’è la situazione?
Su 18 istituti di pena della Lombardia, 10 sono rimasti “puliti”, non ci sono stati casi. Oggi Milano e Bollate hanno rispettivamente 29 e 47 persone che però arrivano anche da altre carceri. Abbiamo invece focolai a Busto Arsizio e a Opera, ma si stanno estinguendo. Attualmente, negli istituti presenti sul territorio della Diocesi, ci sono 113 positivi (a fronte di 18.188 tamponi eseguiti) e 8 ricoverati. Però nella seconda fase Covid, all’inizio di dicembre, abbiamo sfiorato i 400 positivi, mentre nella prima erano stati al massimo 41. Gli agenti positivi sono più di 500, di cui 100 a San Vittore, 95 a Opera e 101 a Monza.

E poi?
Negli ultimi mesi abbiamo modificato l’intervento. Oltre a mantenere i due hub, laddove le infezioni coinvolgevano una o più sezioni, abbiamo valutato se trasferire i detenuti oppure no. Per esempio da Busto e Monza non abbiamo spostato nessuno e abbiamo gestito le sezioni “cristallizzate”. Per fortuna abbiamo collaborato con due medici infettivologi: Roberto Ranieri, referente in Regione dell’unità operativa di Medicina penitenziaria, e Ruggero Giuliani, incaricato a San Vittore, che ha lavorato con Medici senza frontiere ai tempi dell’Ebola. Questo ci ha consentito di prendere contatti con l’associazione e ricevere un grande aiuto sull’efficienza e sulla formazione. Abbiamo anche inventato video tutorial che inviamo negli istituti per mostrare i comportamenti corretti (e sbagliati) per tutelarsi, rivolti anche ai detenuti perché tradotti in lingua.

Qual è il clima che si respira oggi negli istituti?
È un clima complicato dalla pandemia: la paura poi accomuna tutti, dentro e fuori dalle carceri. È evidente che ci sono state restrizioni importantissime, fin dai primi giorni di marzo, e si è intervenuti su una serie di diritti. La chiusura ha lasciato fuori anche operatori penitenziari e il carcere si è trovato ancora più “oziante” di prima: le opportunità di scambio, relazione, impegno sono diminuite, tornando al carcere del 1974, precedente alla riforma dell’Ordinamento penitenziario che chiedeva di aprire alla società.

Soprattutto si è interrotto il rapporto diretto con i familiari…
È vero. Tuttavia l’introduzione delle videochiamate è stata una sorpresa, perché ci sono state persone che hanno potuto rivedere casa loro dopo anni, hanno parlato con parenti anziani come i nonni che non potevano fare 400 chilometri per incontrare i nipoti. Questo è stato fatto a normativa invariata: perché abbiamo dovuto aspettare una pandemia per adottare questo metodo? Oggi quindi si vive peggio rispetto a quando il carcere era più aperto e dinamico; uno dei gravi problemi della pena carceraria è proprio l’ozio.

I detenuti e la polizia penitenziaria, come anche gli anziani delle Rsa, vivono a stretto contatto tra loro. Quando potranno essere vaccinati?
Nei giorni scorsi ho telefonato in Prefettura per capire se c’erano novità, ma quando arriveranno per noi i vaccini non sono ancora in grado di dirlo. Intanto iniziamo a prepararci. È chiaro però che il carcere, per la sua conformazione e la vicinanza delle persone, andrà preso in considerazione con urgenza, non solo perché la relazione umana è molto ravvicinata, ma per la presenza di persone fragili, sia anziane, sia malate.

Nonostante l’emergenza sanitaria quali sono le attività consentite oggi ai detenuti?
La chiusura è stata pressoché totale, anche se abbiamo fatto molti sforzi: a fine maggio abbiamo tentato una riapertura e in parte c’è stata. A seguito del protocollo tra Stato e Vaticano sono riprese le funzioni religiose con una serie di prescrizioni; la scuola ha cercato di andare avanti, ma non supportata da una rete informatica efficace e si è fatta molta fatica. A luglio avevamo istituti che avevano riaperto le attività al 50% e altri al 5%. Non era certo un risultato brillante, ma bisogna comprendere le paure e le cautele. Poi durante l’estate c’è stato il vuoto e a settembre abbiamo dovuto fare i conti con la seconda ondata e siamo fermi lì. So che a San Vittore, e non solo, c’erano educatori che facevano il giro cella per cella a parlare con i detenuti. Non ci ha fatto piacere chiudere le attività, è meglio tenere le persone aperte che chiuse perché la rabbia cova di più nel vuoto. In questi giorni affronteremo la questione della terza ondata, perché non si può escludere che ci sia.

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