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Intervista

Pupi Avati e i 100 anni delle Ferrovie:
storie di viaggi, di dolore e di fede

Il noto regista bolognese, impegnato nella realizzazione di un nuovo mediometraggio, racconta le trasformazioni della società italiana attraverso il trasporto su rotaia, ricordando anche gli storici viaggi della speranza con i treni bianchi dell'Unitalsi. Come mostra questo nostro reportage.

Testo di Chiara DE CARLI
Foto di Monica FAGIOLI

13 Aprile 2015

Pupi Avati racconta la storia degli ultimi cento anni delle Ferrovie Italiane. È così che il noto regista è stato incaricato di girare un mediometraggio di 45 minuti, in cui resi protagonisti sono gli ultimi 100 anni di storia ferroviaria del Paese: dall’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra all’EXPO 2015. Iniziativa che prenderà il via nel prossimo mese di maggio, nella città di Milano e la cui inaugurazione coinciderà con il primo viaggio del Frecciarossa 1000, il non plus ultra della tecnologia europea nell’Alta Velocità ferroviaria.

Il filo conduttore è il viaggio in treno, che rappresenta l’evoluzione e le trasformazioni della società italiana nell’ultimo secolo. Ecco, perché è nata l’idea di includere in questi quarantacinque minuti gli storici viaggi della speranza, con i treni bianchi dell’UNITALSI, Unione Nazionale Italiana Trasporti Ammalati Lourdes e Santuari Internazionali, associazione che da più di un secolo si preoccupa di ridare valore e autenticità agli emarginati dalla società. Di tutto questo abbiamo parlato con il maestro Pupi Avati.

Nei suoi film sono presenti testimonianze di fede, ma immagini di treni che io ricordi poche..
Francamente ricordarmi esattamente di 40 film è un po’ difficile. Sicuramente in qualche scena sono presenti, ma non come protagonisti della storia. Solitamente, il treno è stato identificato come mezzo di spostamento tra una scena e l’altra, ma è la prima volta che do atto a delle sequenze essenziali per una storia che si svolgono all’interno dei convogli.

L’immagine del treno, come mezzo di comunicazione e ideale del viaggio: come viene vissuto dal suo punto di vista?
Viene vissuto insieme alla coincidenza dei 100 anni di storia ferroviaria e con l’apertura di EXPO 2015, nei primi di maggio. È un’occasione che viene data da questa iniziativa, aggiunta alla concomitanza del centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, il 24 maggio 2015. In questi anni, il treno ha accompagnato lo sviluppo storico, economico e culturale di un Paese; è quindi un pretesto per raccontare un viaggio lungo un secolo vissuto tra i vagoni di un treno, che via via si è evoluto parallelamente al nostro Paese. Le scene saranno tappe di un’evoluzione che sarà possibile riscontrare proprio durante l’EXPO: l’ultima sequenza si conclude con la partenza del Frecciarossa 1000 che entra nei padiglioni dell’expo, come in una sorta di lieto fine.

E nello specifico per i trasporti dei malati?
In questi anni, le funzioni del treno sono state varie: dalle più deprecabili, come il trasporto degli ebrei ad Auschwitz, per citarne una tra le più nefaste, ad altre le più nobili e addirittura sacrali come quella che effettua l’Unitalsi. Chi non conosce l’Unitalsi!  Negli ultimi incontri in Sala Nervi con il Sommo Pontefice mi sono reso conto di quanto sia vasta l’ampiezza dell’attività svolta. Ciò che colpisce è sia l’entusiasmo dei malati, sia di chi li assiste. Ricordo addirittura nella mia infanzia e nella mia giovinezza che essere volontario dell’Unitalsi era quasi un segno di riconoscimento, molto apprezzato. Tra le attività del treno, è sicuramente rimasta quella più nobile e più spirituale, per questo meno legata alle contingenze esterne. Ogni anno, sono all’incirca novanta i convogli si recano a Lourdes, trasportando persone che scelgono di intraprendere questo viaggio, nella speranza che accada qualcosa e che cambi la loro vita. Ad accompagnarle persone che si prendono cura di loro: tutto ciò si somma alla riconoscenza che gli ammalati hanno nei confronti dei volontari. Per questo ho deciso di raccontare un breve flash in cui un ragazzo eredita questo insegnamento dal padre, che era stato barelliere per oltre trent’anni. Il tramandamento tra generazioni, consiste in una caratteristica del mio cinema, sostengo sempre l’insegnamento delle tradizioni attraverso le generazione, senza interruzione.

In effetti in un suo film, “Il testimone dello sposo”, è presente il ricordo costante di cari defunti..
È un film che parla della tradizione contadina, in cui la recita del rosario era fondamentale, il tempo scandito dalla ripetizione delle Ave Maria che avveniva tutti i giorni. Mentre, la notte dell’ultimo dell’anno, si recitava il cosiddetto rosario dei morti, durante il quale si sgranava il rosario, pronunciando i nomi dei defunti, cercando di risalire agli antenati più lontani. Credo che per non far scomparire del tutto una persona che è stata, sia sufficiente citarne il nome. A casa mia, ho una parete che chiamo “la via degli angeli”, in cui appesi ci sono centocinquanta ritratti incorniciati, e sono centocinquanta amici miei e persone care che non ci sono più. Il rapporto con i defunti è qualcosa di profondamente intimo, e per me rimane una frequentazione serale: prima di andare a dormire penso a tutte queste mie persone care e io mi sento protetto. Ecco, oggigiorno, il culto dei morti è una tradizione che è andata persa, perché la morte non deve esistere nella società dei consumi, soprattutto la nostra morte. A me, questa tradizione è rimasta,  forse a causa dei primi anni della mia esistenza, caratterizzati dallo sfollamento bellico nelle campagne. Anche se la morte è un’entità che continua a farmi paura.

Lei è  mai stato a Lourdes?
A Lourdes, mai. Sono stato un paio di volte a Medjugorje e a Loreto. A Loreto ci andai negli anni Cinquanta, insieme a mia madre e in quella occasione sono stato testimone di un miracolo. Mia madre era molto introdotta nel mondo ecclesiale, era capace di instaurare rapporti facilmente, sapeva il fatto suo. Mi ricordo che passammo dalla basilica e riuscì a farsi ad aprire in piena sera, da un sacrestano, disturbato mentre aveva un tovagliolo al collo, poiché stava cenando con delle pappardelle al sugo, ed era molto irritato da questa intrusione. Si fece aprire la basilica, perché era ostinata nel voler andare a vedere la Santa Casa, custodita all’interno della basilica stessa e desiderava a tutti i costi ottenere una boccetta di olio miracoloso, da portare a questa nostra zia sultana che era prossima ad andarsene: pesava 37 kg, affetta da peritonite e un tumore osseo. Una volta avuto, andammo a Sasso Marconi con questo olio, dove stava mia zia.  Mia madre salì in casa sua, unse la sultana e poi ce ne tornammo a Bologna. Successe che poi alle due di notte, venimmo svegliati da un fragore di clacson e di urla, come se la Nazionale avesse vinto ai mondiali di calcio. Lì, in via Saragoza a Bologna, c ‘era una carovana che proveniva da Sasso Marconi e c’era il fratello che portava questa malata in braccio esclamando: «Ha visto la Madonna, ha visto la Madonna! Ha parlato con la Madonna e vuole le tagliatelle!» Non la Madonna, lei! E ricordo, mia madre con un fisico devastato, si  è messa a cucinare le tagliatelle alle due di notte. Molti giornali si occuparono di questo evento, perché nessun oncologo riuscì a dare una spiegazione scientifica a questo fatto. Da qui l’organizzazione di pullman per andare in pellegrinaggio da Sasso Marconi a Loreto, insieme alla Miracolata, appellativo usato poi per definire mia zia. Quindi, questa esperienza di bambino che  vive una storia simile che non ha niente a che fare con la ragione, ma con il sacro, ha fatto sviluppare in me molta comprensione nel confronto di tali iniziative.

Secondo lei il messaggio che l’Unitalsi desidera trasmettere è ancora attuale?
Secondo me lo è sempre di più. Anche se ultimamente non sono più solamente le malattie fisiche, ovvero le varie forme cardiovascolari, tumori a rendere ostaggi della disperazione, ma soprattutto le malattie della mente. Le persone stanno progressivamente sempre più pazze, perché vivere nelle contingenze quotidiane è molto complicato. Ultimamente ci si deve confrontare con la solitudine, con contesti famigliari che non danno più garanzie e protezione.