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Linguaggio del corpo

Gli adulti imparino a leggere gli occhi dei ragazzi

I "non sguardi" dei giovani non riescono a nascondere il male di vivere o la sofferenza che hanno dentro, perché il corpo non dice bugie e gli occhi non li puoi truccare, ma solo coprire

di Vittorio CHIARI Redazione Diocesi

15 Gennaio 2010

Anni fa mi trovavo a Stoccarda per una mostra di disegni di Ernesto Treccani. Il critico d’arte (uno psicologo) rivolgendosi al pubblico presente alla vernice ebbe a dire: «Credete di essere voi a guardare i volti di questi ragazzi? No, sono loro che guardano! I loro occhi vi interrogano».
Quando la pittura o lo la fotografia immortalano un volto, sono proprio gli occhi che mettono in contatto l’artista con lo spettatore. «L’espressione del volto e l’intensità dello sguardo, la dolcezza di un sorriso e il dolore delle lacrime sono particolari che rendono unica la persona, che la fanno riconoscere tra altre mille�».
Quello che ha scritto Simona Verrazzo, presentando una mostra a Lugano sul volto e lo sguardo nell’arte, è altrettanto vero in campo educativo, quando i ragazzi, nei loro occhi e nel loro sguardo, negato, assente o partecipe, ti dicono quale relazione si è stabilita tra l’adulto – genitore o educatore – con loro.

«Io non guardo mai in faccia mio papà e questo lo fa star male, ma i suoi occhio inquisitori, freddi, di ghiaccio, mi spaventano!». Alcuni insegnanti ad un corso di espressione drammatica per loro, mi confessavano il loro disagio, quando un ragazzo o una ragazza negava loro lo sguardo, tenevano gli occhi bassi a terra, oppure non riuscivano loro stessi a sostenere lo sguardo di ragazzi arroganti o violenti, che li sfidavano guardandoli fissi negli occhi.

L’ultimo giorno dell’anno, ho atteso la mezzanotte, guardando “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, uno dei canti più poetici – e poetici perché umani – che ci abbia proposto il cinema italiano, dove l’epopea degli umili, le loro fatiche, la loro fede, viene raccontata con il pudore delle anime grandi.
Ho pianto di fronte allo sguardo di Minech, il bambino, per il quale il papà, aveva tagliato, di nascosto, una pianta al padrone: era rimasto senza zoccoli e, senza, non poteva frequentare la scuola, distante chilometri. Quando la famiglia viene cacciata da casa, la lacrima negli occhi del bimbo dice il suo dolore ma anche la sua condanna dell’ingiustizia del padrone vendicativo, che non tiene in alcun conto le persone, una famiglia.

E come resistere di fronte agli sguardi di tanti bimbi del mondo della povertà e della miseria, impietosamente fotografati e pubblicati nei “magazine” illustrati di nostri quotidiani? So di gente che ha messo da parte la macchina fotografica sulle strade dell’Etiopia o di Bombay, sulle discariche di Nairobi.
O se hanno fotografato, come il mio amico Enrico Mascheroni, hanno colto volutamente, negli occhi del malato di Aids o del bimbo dal ventre “spropositato”, la voglia di entrare in comunione con il mondo del benessere, per chiedere il perché di una disparità, che invoca giustizia agli occhi di Dio.

E i non volti dei nostri giovani, con i loro piercing al labbro o al sopracciglio, il trucco pesante delle nostre ragazze per nascondere il disagio del cuore, per richiamare l’attenzione, per essere accettati dai loro pari? I non sguardi, che non riescono comunque a nascondere il male di vivere o la sofferenza che hanno dentro, perché il corpo non dice bugie e gli occhi non li puoi truccare, solo coprire con le tue mani?

Genitori ed educatori, insegnanti o gente dei Servizi Sociali, dobbiamo renderci sempre più atti a leggere il linguaggio del corpo dei nostri giovani, a cogliere dai cambiamenti repentini o dai dettagli impercettibili la stagione stanno vivendo. Se delle ceneri, del sangue o del sorriso, della gioia di vivere.
E per entrare in sintonia e non commettere errori di giudizio o di risposta, si deve esser familiari con loro, nel tempo, nell’accompagnamento, nella voglia di simpatizzare ed entrare in relazione anche scomoda.
Pietro piange nell’incontrare lo sguardo di Gesù! Piange e si pente perché era familiare con lui anche se non capiva tutto di questo Educatore, che andava troppo oltre al suo modo di pensare, di vedere la gente. Non aveva pregiudizi, aveva voglia di raggiungere il cuore, l’anima delle persone, anche le più sbagliate, anche le Maddalene e le Samaritane, che negli occhi di chi le pagava non coglievano certamente amore ma possesso, violenza, sfruttamento.
“Guardami e ti dirò chi sei”. Vero! Se non hai solo intelligenza, ma cuore, voglia di confrontarti e di cambiare! Anni fa mi trovavo a Stoccarda per una mostra di disegni di Ernesto Treccani. Il critico d’arte (uno psicologo) rivolgendosi al pubblico presente alla vernice ebbe a dire: «Credete di essere voi a guardare i volti di questi ragazzi? No, sono loro che guardano! I loro occhi vi interrogano».Quando la pittura o lo la fotografia immortalano un volto, sono proprio gli occhi che mettono in contatto l’artista con lo spettatore. «L’espressione del volto e l’intensità dello sguardo, la dolcezza di un sorriso e il dolore delle lacrime sono particolari che rendono unica la persona, che la fanno riconoscere tra altre mille�».Quello che ha scritto Simona Verrazzo, presentando una mostra a Lugano sul volto e lo sguardo nell’arte, è altrettanto vero in campo educativo, quando i ragazzi, nei loro occhi e nel loro sguardo, negato, assente o partecipe, ti dicono quale relazione si è stabilita tra l’adulto – genitore o educatore – con loro.«Io non guardo mai in faccia mio papà e questo lo fa star male, ma i suoi occhio inquisitori, freddi, di ghiaccio, mi spaventano!». Alcuni insegnanti ad un corso di espressione drammatica per loro, mi confessavano il loro disagio, quando un ragazzo o una ragazza negava loro lo sguardo, tenevano gli occhi bassi a terra, oppure non riuscivano loro stessi a sostenere lo sguardo di ragazzi arroganti o violenti, che li sfidavano guardandoli fissi negli occhi.L’ultimo giorno dell’anno, ho atteso la mezzanotte, guardando “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, uno dei canti più poetici – e poetici perché umani – che ci abbia proposto il cinema italiano, dove l’epopea degli umili, le loro fatiche, la loro fede, viene raccontata con il pudore delle anime grandi.Ho pianto di fronte allo sguardo di Minech, il bambino, per il quale il papà, aveva tagliato, di nascosto, una pianta al padrone: era rimasto senza zoccoli e, senza, non poteva frequentare la scuola, distante chilometri. Quando la famiglia viene cacciata da casa, la lacrima negli occhi del bimbo dice il suo dolore ma anche la sua condanna dell’ingiustizia del padrone vendicativo, che non tiene in alcun conto le persone, una famiglia.E come resistere di fronte agli sguardi di tanti bimbi del mondo della povertà e della miseria, impietosamente fotografati e pubblicati nei “magazine” illustrati di nostri quotidiani? So di gente che ha messo da parte la macchina fotografica sulle strade dell’Etiopia o di Bombay, sulle discariche di Nairobi. O se hanno fotografato, come il mio amico Enrico Mascheroni, hanno colto volutamente, negli occhi del malato di Aids o del bimbo dal ventre “spropositato”, la voglia di entrare in comunione con il mondo del benessere, per chiedere il perché di una disparità, che invoca giustizia agli occhi di Dio.E i non volti dei nostri giovani, con i loro piercing al labbro o al sopracciglio, il trucco pesante delle nostre ragazze per nascondere il disagio del cuore, per richiamare l’attenzione, per essere accettati dai loro pari? I non sguardi, che non riescono comunque a nascondere il male di vivere o la sofferenza che hanno dentro, perché il corpo non dice bugie e gli occhi non li puoi truccare, solo coprire con le tue mani?Genitori ed educatori, insegnanti o gente dei Servizi Sociali, dobbiamo renderci sempre più atti a leggere il linguaggio del corpo dei nostri giovani, a cogliere dai cambiamenti repentini o dai dettagli impercettibili la stagione stanno vivendo. Se delle ceneri, del sangue o del sorriso, della gioia di vivere.E per entrare in sintonia e non commettere errori di giudizio o di risposta, si deve esser familiari con loro, nel tempo, nell’accompagnamento, nella voglia di simpatizzare ed entrare in relazione anche scomoda. Pietro piange nell’incontrare lo sguardo di Gesù! Piange e si pente perché era familiare con lui anche se non capiva tutto di questo Educatore, che andava troppo oltre al suo modo di pensare, di vedere la gente. Non aveva pregiudizi, aveva voglia di raggiungere il cuore, l’anima delle persone, anche le più sbagliate, anche le Maddalene e le Samaritane, che negli occhi di chi le pagava non coglievano certamente amore ma possesso, violenza, sfruttamento. “Guardami e ti dirò chi sei”. Vero! Se non hai solo intelligenza, ma cuore, voglia di confrontarti e di cambiare!