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Milano

«Vivere la cultura della pace, prendendosi cura gli uni degli altri a partire dai più poveri»

L’Arcivescovo ha presieduto, in Duomo, la Celebrazione del primo giorno dell’anno alla quale hanno preso parte i rappresentanti del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano. A conclusione della Messa, il tradizionale incontro ecumenico di augurio

di Annamaria Braccini

1 Gennaio 2021

Per quali vie si compie oggi il messaggio di pace? Con quali sentimenti le donne e gli uomini del Terzo millennio vivono la fraternità tra persone e popoli?

Sono domande cruciali – e spesso dolorose – quelle che l’Arcivescovo situa al cuore della sua riflessione, proposta in Duomo nella Celebrazione del 1 gennaio, 54esima Giornata Mondiale della pace. Come tradizione, in altare maggiore, trovano posto i Rappresentanti delle Confessioni cristiane presenti a Milano. Concelebrano il vescovo, monsignor Giuseppe Merisi, il vicario episcopale monsignor Luca Bressan, monsignor Giuliano Savina, direttore dell’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della Cei. In apertura, monsignor Gianantonio Borgonovo, arciprete della Cattedrale, dice: «Nel giorno in cui il Rito ambrosiano, alla pari delle Chiese di Oriente, fa memoria della circoncisione del Signore Gesù e celebra il suo nome, trovandoci in un unico luogo, ma non potendo ancora celebrare insieme l’Eucaristia, possiamo tuttavia, alzare una richiesta di perdono al Padre dei cieli e formulare progetti per agire di comune accordo».

Dalla cultura della pace e del prendersi cura si avvia l’omelia del vescovo Mario.

«C’è forse una parte dell’umanità che si difende con l’indifferenza, non disturba e non vuole essere disturbata. Ecco come si costruisce la pace: ciascuno a casa sua. Estraniarsi, stare distanti, non immischiarsi nella vita altrui. L’indifferenza trasforma il mondo in una gelida solitudine che lascia che i prepotenti saccheggino le risorse e che i poveri siano consegnati alla disperazione».

Vi è, poi, quell’altra parte dell’umanità che «vive di titoli clamorosi,essendo, quindi, condotta qua e là da ogni vento, da ogni notizia e vedendo il mondo, la vita, se stessa secondo l’aria che tira».

E, ancora, «c’è la gente che raccoglie con intensità i messaggi che vengono dalla moltitudine degli inviati di Dio e conosce slanci di generosità e parole di euforia. Forse, anche loro si sentono amici della pace. Ecco cos’è, per loro, la pace: un brindisi di capodanno che unisce il pianeta nello stupore dei fuochi d’artificio. I buoni sentimenti e l’entusiasmo sono una parentesi nel calendario della serie dei giorni banali, stentati, grigi».

Ma Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» – come dice la pagina del Vangelo di Luca, appena cantata nella Liturgia della Parola-, insegna ben altro. Quella pace che, nell’intimità personale, diviene, un modo di pensare nella contemplazione, segno di speranza e di dedizione. «La Madre, modello per la Chiesa e per ogni persona credente, riceve l’annuncio e lo custodisce come un seme da coltivare nel cuore. Le relazioni tra le persone diventano, così, comunione e generano quella cultura del prendersi cura che trasforma l’umanità in una fraternità.

Dove, dunque, possono incontrarsi i popoli e le persone «perché il nostro mondo non finisca in una gelida solitudine o non si rassegni a un grigio squallore interrotto solo da parentesi di entusiasmo?», si chiede ancora l’Arcivescovo. Il riferimento è ancora a Maria

«Maria suggerisce la via della contemplazione, del cuore che custodisce il Mistero. È un’immagine per dire di quella intimità personale, che è ospitale per i fratelli e le sorelle, perché dal cuore viene lo sguardo che riconosce, rispetta, prova compassione e diventa parola amica. Come sarebbe necessario decifrare per noi questo atteggiamento».

E anche se «alcuni se ne tengono lontani, perché forse temono di trovare sensi di colpa, rimorsi angoscianti, ferite che ancora sanguinano e, perciò, preferiscono essere superficiali, aborrire il silenzio, come se il cuore fosse un luogo scomodo e inquietante per fermarsi», i credenti «riconoscono proprio lì sta il principio della pace. Lo Spirito, infatti, rende partecipi dei sentimenti di Gesù ed è dal cuore che nascono i percorsi per incontrare le persone e per prendersene cura, non come presenze anonime, ma fratelli e sorelle».

Infatti, dal cuore si può imparare quella cultura del prendersi cura di cui parla Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata della Pace. «È quel modo di guardare la persona nella sua dignità che diventa un modo di guardare tutto, divenendo quella fraternità che tutta l’umanità è chiamata a realizzare. Una cura per il bene comune – prima di tutto per i poveri e i disperati – che si fa anche cura del Creato e solidarietà che «esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come determinazione ferma e perseverante».

Infine, a conclusione della Messa, l’invocazione della benedizione di Dio da parte di tutti i Ministri delle Confessioni che, dopo poco, si sono ritrovati nella Capella Arcivescovile per il tradizionale scambio di auguri con l’Arcivescovo.

L’incontro con i rappresentanti del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano

Voluto fortemente, anche in questo difficile momento, appunto dal vescovo Mario, l’incontro ecumenico è stata occasione per riflettere sui mesi vissuti, guardando però al futuro con fiducia e speranza. Così come ha sottolineato, in apertura, monsignor Luca Bressan, presidente della Commissione Ecumenismo e Dialogo, presente anche il responsabile del Servizio per l’Ecumenismo e Dialogo della Diocesi, il diacono Roberto Pagani.

«Siamo qui con l’intenzione di darci forza, gli uni gli altri, secondo quella cultura della cura che papa Francesco indica. Sentiamo il calore delle Chiese che camminano insieme».

Francesco Castelli, presidente del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano, spiega. «Soprattutto all’inizio di un nuovo anno civile, intendiamo ridire insieme la speranza cristiana per un anno di pace e di giustizia. Una speranza che non è un generico ottimismo, ma un essere testimoni, presenza viva all’interno di una storia che è di salvezza e che trova nell’incarnazione il suo punto di coagulo. Ci stiamo interrogando, come Chiese, sul vissuto di questo tempo nel quale la speranza sembra meno poggiata su fondamenta sicure e stiamo iniziando un percorso, per tentare, nel mondo che verrà, di dire come pensare da cristiani la cultura del prendersi cura».

Il richiamo è all’ormai prossima Settimana di Preghiera per l’Unita dei Cristiani, in programma dal 18 al 25 gennaio e al suo tema portante, “Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto” (Gv 15, 5-9). «Nel tempo in cui ci viene chiesto il massimo del distanziammo, siamo chiamati a riflettere sul il massimo della vicinanza nel Signore nella nostra nuova quotidianità».

L’intervento dell’Arcivescovo

Di una testimonianza della speranza parla anche il Vescovo. «Tutti noi portiamo la responsabilità di ridire le ragioni della speranza a questa società che, in molti aspetti, prescinde da Dio e non si accorge delle Chiese. Sembra che tutto, oggi, possa risolversi nell’organizzazione e nell’esercizio del potere politico ed economico e che la nostra vita di Chiesa scorra sotterranea. Quindi, la domanda che tutti ci poniamo è se ci sono le condizioni perché le Chiese sopravvivano e se la secolarizzazione non sia un modo per estirpare la presenza cristiana. Dobbiamo dire che la speranza non è un concetto vago, ma ha un fondamento teologico: abbiamo bisogno di essere donne e uomini di preghiera, che parlano di Dio condividendo un’esperienza».

La memoria va alla preghiera della mattina del Sabato santo 2020, in un momento tragico di morte diffusa per la pandemia, pronunciata dall’Arcivescovo stesso, da una Pastora da un Ministro ortodosso. «Al cimitero Monumentale, insieme, siamo stati testimoni della Resurrezione».

«La Settimana di Preghiera per l’Unità, con il suo invito a rimanere in Gesù, è un richiamo all’essenziale. Vogliamo vivere la nostra comunione non esercitandoci in buone maniere, ma sentendoci in Gesù. Vorrei proporre questo itinerario spirituale, mistico che, cioè, entra nel Mistero. Questo non è un tempo per lamentarsi o guardare con distacco e, forse disprezzol’agitarsi dell’umanità smarrita. Tocca a noi tutti insieme essere testimoni della speranza».

Evidente il riferimento al titolo del “Discorso alla Città” 2020 e al Messaggio del Papa. «La cultura della cura, prima ancora che un’azione, deve essere un modo di pensare, un percorso di conversione e la condizione per la pace. Desideriamo mettere a frutto le nostre tradizioni di preghiera per incontraci vicino all’umanità sofferente, smarrita e disperata. Questa pandemia ha causato tanti morti che, ogni giorno, vengono contati – ed è uno strazio – ma ci sono cose che non si contano come i danni psicologici, le solitudini, le regressioni nei rapporti umani. Vogliamo proporre una guarigione: non abbiamo un filtro magico, ma abbiamo la fede e vogliamo prenderci cura».

Infine, l’invito. «Come Chiesa Cattolica stiamo ripensando la nostra presenza sul territorio che è capillare, ma rischia di avere come centro solo la parrocchia. Occorrono, invece, convergenze per irradiare, rendendoci conto di tutto ciò che esiste, appunto, sul territorio, anche se non è in parrocchia. Chiedo a voi di condividere attivamente questo cammino».

«Esercitiamoci nel prenderci cura. La nostra cordiale relazione diventi una parola da dire a questa società: i cristiani sono anzitutto accanto a chi soffre».