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5 Giugno 2008

METTERE AL CENTRO I GIOVANI

Ed ecco che i temi ritornano, i fili non cessano di intrecciarsi, le ricorrenze propongono di nuovo i temi da cui siamo partiti. Mettere al centro del Rapporto i giovani (e la portata della scelta viene ottimamente illustrata da Eugenio Zucchetti, come in ogni edizione con competenza e con amore), quale modo di ricordare alla città che la vera sfida è sul futuro; riandare all’esperienza di Giuseppe Lazzati, come esempio di «maestro» che educa, che letteralmente tira fuori, con metodo maieutico da ragazzi e ragazze le difficoltà, le speranze, la «vocazione» circa le scelte personali, affettive, il lavoro, la partecipazione alla cittadinanza; fare memoria delle vicende storiche del Paese e dei «Padri fondatori» della Repubblica, perché di esempi e di guide abbiamo estremo bisogno, altrimenti – cito ancora lo scritto di Giorgio Rumi sul Corriere della Sera – «la misconoscenza dei valori è tutt’uno con la misconoscenza de1 passato che ammalora la memoria e rende quindi impossibile l’identità, insidiando i fondamenti stessi della coscienza collettiva».

Non c’è da rimpiangere un passato che non può tornare, ma c’è da costruire. E tanto, anche. I giovani rappresentano, come si diceva, una grande, decisiva sfida, per la città e per il Paese, a patto che l’interesse per loro non venga inteso in modo riduttivo e settoriale, semplicemente come provvedimenti particolari, ad essi destinati.

Il fallimento di molte «politiche per i giovani» – anche quando queste ci sono state – a livello di realtà locali o nazionali nasce proprio dall’aver inteso gli interventi come risposta a segmenti di bisogni. I compartimenti stagni e la parzialità delle iniziative (ora l’istruzione, ora il lavoro, ora la socializzazione) mortificano ogni slancio e ogni prospettiva.

La città, da questo punto di vista, è impietosa nel proporre le retroazioni non calcolate di una politica miope: le periferie, i ghetti, le scuole parcheggio, le conseguenze del sabato sera.

Ci vuole coraggio nel cambiare mentalità e, quindi, approccio verso i giovani. E insisto su questo sostantivo e lo sottolineo con evidenza, perché tutti sappiamo che l’asettica dizione «questione giovanile» non solo non rende la portata del fenomeno che abbiamo di fronte, ma serve solo a perpetrare una sordità a richiami e sollecitazioni che pagheremo cara, qualora non ci decidessimo a prendere sul serio il futuro.

E nel mettersi all’opera ci vuole anche una buona dose di umiltà, quella che i «maestri» avevano e coltivavano come fatto naturale. Senza praticarla come vera virtù non avrebbero certo potuto candidarsi a punti di riferimento, guide, esempi. Non è credibile chi ti si presenta senza rendere trasparente la fatica del cammino che egli ha compiuto prima, i segni delle piccole o grandi battaglie affrontate, la tempra rafforzata attraverso i tributi pagati alla ricerca di sé e su di sé, la gioia delle mete raggiunte e insieme il senso delle proporzioni in quanto ogni punto d’arrivo è insieme punto di partenza.

Ecco, la dimensione della continuità è un patrimonio di valore inestimabile, anche se ne abbiamo al momento smarrito la consapevolezza. Quelle figure di cui sembra si sia perso la stampo, i «maestri» insisto, hanno potuto vivere le loro esistenze ed affrontare le loro prove proprio in quanto alimentavano dentro di loro, nella mente e nel cuore il vissuto di lavorare non solo per loro stessi, ma per qualcosa e per qualcuno che avrebbe raccolto il testimone, sarebbe andato avanti.

(segue)

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