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Quinta d’Avvento

Scola: «Nella società plurale occorre testimonianza, non servono sterili polemiche che conducono all’ideologia»

Il Cardinale ha presieduto in Duomo la Celebrazione eucaristica nella V Domenica dell’Avvento ambrosiano. La figura del Precursore, il valore della testimonianza e del dialogo, al centro della sua omelia

di Annamaria BRACCINI

11 Dicembre 2016

Nella V Domenica dell’Avvento Ambrosiano a lui intitolata, la figura di Giovanni Battista, appunto, “Il Precursore”, attraversa come un filo rosso la Liturgia della Celebrazione che il Cardinale presiede in Duomo. Tra le navate ci sono i fedeli provenienti dalla Zona pastorale III e gli appartenenti al Movimento Apostolico, alle Acli e dell’Ėquipe Nôtre Dame, cui si aggiungono i cresimandi, i genitori e le catechiste della parrocchia “Sacra Famiglia” di Novate Milanese. 
Annunciato cinque secoli prima di Cristo dal profeta Malachia come colui che prepara la venuta del Signore, il Precursore è il primo testimone del Dio fatto carne, dovendo dare, come scrive l’evangelista Giovanni, “testimonianza della luce”.  
Dunque, il vero testimone tanto che  – nota in apertura dell’omelia, l’Arcivescovo  – «nelle sue numerosissime raffigurazioni artistiche è spesso rappresentato con l’indice puntato a indicare un altro: il testimone è sempre relativo ad un altro da sé. Ognuno di noi vive nel bisogno di questa reciproca testimonianza, di amore, di giustizia, di partecipazione alla vita civile, di condivisione». 
Una testimonianza che è, quindi, una necessità e un’evidenza che si documenta nell’esperienza di tutti. «Dall’attribuzione del nome fino al paziente cammino dell’educazione, un altro ci dice chi siamo e ci introduce alla realtà concreta e intera. La fede non fa che gettare una luce fino in fondo questa esperienza umana. È la ragione per cui credere ci “con-viene”, in quanto corrisponde profondamente alla nostra umana natura».
Da qui, emerge quella che il Cardinale definisce «una prima importante implicazione che serve per la vita di Chiesa, di famiglia, dei nostri paesi, della società civile: nel necessario e instancabile dialogo con ogni fratello uomo, il cristiano/testimone non può mai essere autoreferenziale. Non si pone mai come chi già possiede la risposta compiuta a qualunque interrogativo, ma come un compagno di cammino verso Colui, Gesù, che ci apre alla risposta» e ci conduce, come dice ancora Giovanni, “alla grazia e alla verità venute per mezzo di Lui”. 
«Nella nostra società plurale l’atteggiamento di autentica testimonianza ci rende particolarmente sensibili alla verità, volendo cogliere la realtà in modo intero. Ecco perché  – scandisce Scola  – i testimoni autentici sono sensibili a ogni manifestazione della verità di cui ogni uomo, non soltanto i cristiani, può essere testimone. Solo in questo modo il dialogo, anche nei conflitti, diventa fecondo perché sarà un camminare insieme verso le radici della realtà». 
Sull’esempio del Figlio che è Colui che racconta, narra e rivela Dio Padre (il riferimento è al verbo greco utilizzato nel Vangelo), quel Cristo di cui abbiamo tanto bisogno in questa società perché ci fa comprendere l’abbraccio misericordioso del Padre e ci permette di tornare verso di Lui dal terribile atteggiamento di dimenticanza di Dio, nasce, un’ulteriore implicazione. 
«Il metodo del dialogo che i cristiani sono chiamati ad offrire a tutti, è la narrazione reciproca tesa a mettere in comune testimonianze ed esperienze di vita. È molto auspicabile che in tutte le nostre comunità cristiane, ma anche, con le debite distinzioni, nelle realtà civili, questo metodo sia tenuto in grande stima e perciò sia praticato sul serio. Non sono necessarie sterili dialettiche, non dibattiti che non coinvolgono le nostre persone e che conducono alle sabbie mobili dell’ideologia, ma scambio vitale di esperienze». 
Insomma, questa è la responsabilità dei battezzati che sono “uno in Cristo”, per usare le parole della Lettera ai Galati, pronunciata nella Liturgia: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.
«Essere battezzati in Cristo significa essere legati a Lui in un modo profondo e personale ed è proprio questo legame che provoca un cambiamento radicale della nostra persona. Il Battesimo, infatti, genera una nuova figliolanza, la novità dell’essere figli nel Figlio». 
Una parentela, «che ha una stabilità che va oltre quella del sangue» e che si esprime, appunto,   attraverso il superamento di ogni discriminazione; sul piano religioso, ”fra Giudeo e Greco”; sul piano della vita civile nel rispetto di tutti, “tra schiavo e libero”; sul piano della differenza sessuale,“tra maschio e femmina”. 
Chiarissima la conclusione del Cardinale: «Non si può negare che queste affermazioni della Lettera ai Galati individuino criteri validi anche per ogni società civile, di ogni tempo e anche di ogni spazio. Testimoniare questi dati è il modo con cui i cristiani possono contribuire a quell’amicizia che fa della società plurale un luogo in cui si afferma la dignità e il sistema dei diritti-doveri-leggi a favore di tutti. Questo dobbiamo praticare, con comunione, nella Chiesa e nella società». 
Il pensiero è alla visita del Santo Padre: «Siamo certi che segnerà, per le nostre terre, un importante passo verso una cultura dell’incontro che, sola, può lasciare alle spalle quella indegna dello scarto, come ci ricorda sempre papa Francesco».
E, alla fine, ancora la raccomandazione, per questi ultimi giorni che separano 25 dicembre, di non dimenticare l’Anno giubilare appena concluso praticando un’opera di misericordia «tanto più perché, nel Natale, la misericordia stessa di Dio si è fatta bimbo» e di riaccostarsi al Sacramento della Riconciliazione facendo ogni sacrificio per questo motivo.  

Giovanni, mandato da Dio per dare testimonianza alla luce

«Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Giovanni ci guarda, e sorride. Come un affettuoso rimprovero, come ad avvertirci di fare attenzione, di andare oltre, fino al cuore della verità. «Non fermatevi a me», sembra infatti dire quella mano sinistra con cui il Precursore si tocca il petto, «ma puntate in alto, verso la vera luce», come ci invita a fare con il gesto della mano destra, il dito indice levato verso il cielo. Quello stesso dito con cui mostrerà alle folle Gesù, proclamando: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!». Il Battista di Leonardo da Vinci è giovanissimo, poco più che un adolescente. I capelli lunghi, come un casco di boccoli. Il corpo acerbo, non ancora macerato dai digiuni nel deserto. Il volto dolce, quasi femmineo, non ancora scavato dalle tensioni della predicazione. E quel sorriso che, al pari di quello celeberrimo della Gioconda, non ha nulla di misterioso o di inquietante, ma che anzi è espressione di una assoluta serenità interiore, di una gioia che sgorga dall’intimo, per la consapevolezza di essere «un uomo mandato da Dio», «per dare testimonianza alla luce». Una letizia che consola e ringiovanisce, appunto, nello spirito e nella mente. E pensare che quest’opera, oggi conservata al Louvre, è molto probabilmente una delle ultime che l’ormai anziano Leonardo dipinse negli estremi anni della sua vita straordinaria, è davvero emozionante.
Luca Frigerio