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Milano

Scendere in campo per una comunicazione che sia bene comune. Un giornalismo “made in Italy”

Presso l’Istituto dei Ciechi di Milano, si è svolto il tradizionale incontro dell’Arcivescovo con gli operatori della comunicazione: 6 giovani, provenienti dalle 3 Scuole di Giornalismo universitarie della città, dopo le riflessioni dei loro responsabili, hanno dialogato con l’Arcivescovo

di Annamaria Braccini

28 Gennaio 2019

Un giornalismo capace di promuovere e di comunicare il bene, di fare rete (nel senso di creare relazione), con competenza e chiedendosi a chi è rivolta l’informazione; capace di mettersi in gioco, sapendo che, talvolta, vi è un prezzo da pagare: Un fare la professione dei comunicatori secondo le logiche del bene, rimboccandosi le maniche, “andando sul campo”, con entusiasmo e consapevolezza dei propri limiti, magari, con un nuovo modello “Made in Italy”, come accade per tante eccellenze che qualificano il nostro Paese in tutto il mondo.

L’Arcivescovo dice tutto questo, incontrando, come tradizione, i giornalisti, in un’affollata Sala Barozzi dell’Istituto dei Ciechi di Milano. A dialogare con il vescovo Mario sono 6 giovani che frequentano le 3 Scuole Universitarie della città in cui ci si forma alla professione.

Introdotto da don Walter Magni, portavoce dell’Arcivescovo e responsabile dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi, l’incontro rivolge la sua attenzione, infatti, al futuro dell’informazione.

In apertura, Alessandro Galimberti, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, lancia un grido di allarme sulla temperie della comunicazione in rete. «Dobbiamo chiederci, come cittadini e giornalisti, se siamo dei narratori di realtà o dei fotografi dell’attimo, che vedono solo una tessera del mosaico, ma non oltre. Ci manca il senso del racconto, ma averlo sarebbe l’unico modo per sconfiggere il giornalismo militante, con un percorso per scoprire, capire, proporre la nostra lettura dei fatti. Siamo diventati degli eremiti sociali».

Gli interventi, che precedono il dialogo con il Vescovo, sono affidati – con la moderazione di Alessandro Zaccuri di “Avvenire” – a Claudio Lindner vicedirettore del Master in giornalismo “Walter Tobagi” all’Università degli Studi di Milano, a Marco Lombardi, direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica di Milano e a Ugo Savoia, coordinatore didattico del Master in Giornalismo alla IULM

Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università Cattolica di Milano, offre il quadro di riferimento. 3 le trasformazioni in atto che indica: «La prima riguarda le pratiche nei confronti delle nuove tecnologie che consentono, sempre più, un giornalismo da tastiera, ma d’altro canto, l’alleggerimento delle tecnologie che permette una maggiore possibilità di reportage video, ad esempio. Poi, il valore economico del prodotto giornalistico, che passa dalla generazione di traffico, dai click; infine, la notizia che è sfidata dal fatto che stiamo notiziando l’intero sapere».

Da qui 3 auspici, nel cambiamento di epoca in atto, da guardare, comunque, con ottimismo: «Che rimangano la curiosità e la sincerità nella ricerca; che vi sia la consapevolezza che ogni conoscenza umana è limitata avendo l’umiltà di riconoscerlo e il far comprendere la propria posizione. Tutte le volte che il giornalismo darà nome, dignità, voce a chi non ha voce, sarà importante e necessario».

Per Lindner, «siamo in un periodo di transizione nel quale occorre controllo». Se i 6-7 gruppi che hanno l’oligopolio dei Social ricordano le 7 “Sorelle del petrolio” il resto lo fanno «la bassa alfabetizzazione del nostro Paese, la poca lettura, anche dei giornali, e un clima politico per cui i giornalisti fanno parte di una presunta élite non proprio gradita». La possibilità di uscirne è, forse, un modello associativo dell’informazione on line cui partecipino (con forme di crownfunding) professionisti e lettori.

Lombardi spiega: «le tecnologie ci colpiscono per la velocità con cui impattano la vita, ma non solo la rete è piena di fake news. Nel conflitto ibrido che stiamo attraversando, il mondo vive di incertezze, per questo c’è continua domanda di informazione. Non sono ottimista perché la crisi continuerà. Non abbiamo ancora teorie forti per capire ciò che accade, in un mondo in cui virtuale e reale non sono più in antitesi, ma anzi si sovrappongono».

Infine, è Savoia a dire con chiarezza: «C’è una colpa nella nostra categoria che ha accettato una sorta di deriva lenta, ma inesorabile, del ruolo giornalistico, per cui, alla fine, il giornalismo diventa litigare via Twitter con Celentano. Le notizie non sono né buone né cattive, dipende da come le si tratta e con quale sensibilità. Hanno tutte una loro funzione e la strada è di formare i giovani a leggere la realtà con le nuove possibilità tecnologiche, ma di pari passo, con educazione alla sensibilità».

Il dialogo con l’Arcivescovo

Si avviano le domande.

Elena della Scuola della “Cattolica” riflette sulla competenza giornalistica.

«Il tema che riguarda la competenza, in un contesto dove sembra avere più mercato la banalità, è fondamentale», risponde l’Arcivescovo che esprime il suo apprezzamento per l’incontro.

«Se la comunicazione si riduce a essere un prodotto da vendere, è logico che il prodotto sarà banale, ma se l’informazione è un bene comune, cioè contribuisce al bene di stare insieme, reagendo alla particolarizzazione e al farsi la guerra, favorendo una società pacifica, deve essere fatto da persone che sanno comunicare. La competenza non è soltanto una tecnica, perché un mestiere, come servizio al bene comune, deve farsi consapevole di cosa sia questo bene. Per questo incoraggio le Scuole di Giornalismo, nelle quali occorre integrare la parola competenza con la coscienza».

Davide, sempre della “Cattolica”, si interroga sulla responsabilità di un giornalismo di pace.

«Schierarsi per una funzione di giornalismo che favorisca l’intesa e non lo scontro è uno dei motivi per cui stimo la comunicazione», scandisce il vescovo Mario. «È chiaro che le informazioni tendenziose, qualificate per la squalificazione di altri» – il riferimento è alla migrazione, «capro espiatorio cui dare la colpa di tutto ciò che accade in Europa» – siano di parte e non aiutino a comprendere la realtà.

Al contrario, «vale la pena di schierarsi per la giustizia, passando dall’essere semplicemente informazione a essere provocazione, costringendo il lettore a prendere posizione. È importante avere l’umiltà della non violenza, sapendo che i nostri mezzi sono limitati, ma il gesto minimo può diventare una provocazione. Evidentemente, ci sono dei nemici del giornalismo di pace, per questo dobbiamo scendere in campo, stare nell’agorà confusionaria di oggi, sapendo che ci può essre un prezzo, anche alto, da pagare».

Giorgia della “Walter Tobagi” torna sul nodo dei Social.

«Al Sinodo dei Vescovi sui Giovani abbiamo capito che, nelle enormi diversità di questa età della vita nelle varie parti del mondo, vi è solo una cosa in comune: l’utilizzo dei Social. Tendenzialmente, sono portato ad aver fiducia nel fatto che il bene fa bene e attrae. Il bene produce bene:L dobbiamo proporlo, seminarlo anche con i nuovi mezzi della comunicazione».

Enrica (IULM) ripercorrendo alcune inchieste realizzate con la sua Scuola e la passione che condivide con i giovani colleghi, chiede come fare sempre meglio.

«Io seguo il giornalismo in maniera un poco selettiva, attraverso quei giornalisti che mi aiutano a capire alcuni aspetti della realtà e che stimo. Certamente l’idea di una visione realistica, con le sue vicende positive e negative, è importante. Non bisogna accontentarsi delle notizie di terza mano, lavorare solo alla scrivania. Spendersi nella relazione è un punto da migliorare. La sfida non è solo produrre una notizia non superficiale o di parte, ma anche domandarsi chi sia il destinatario. Contribuire ad avere una visione del reale che non sia ideologica, passa dal dialogo con i fruitori della comunicazione. Bisogna saper raggiungere la gente e, questo, vale anche per la Chiesa».

Ma come convincere le persone a seguire una “giusta informazione”?, riflette Lucio (“Tobagi”).

«Soltanto la relazione interpersonale è un tramite per far passare ciò in cui si crede. Non so come si possa farlo a livello di comunicazione di massa, con un pubblico anonimo. È chiaro che si tratta anche di un problema educativo».

Arriva così la proposta: «Così come il nostro Paese è conosciuto in tutto il mondo per le sue eccellenze, lo potrebbe essere anche per il giornalismo. Perché non inventare un giornalismo che abbia un marchio di prestigio, “Il made in Italy”?». E, immediato, scatta l’applauso.

A conclusione, Beatrice (IULM) domanda come si possano sostenere i ragazzi che non hanno i mezzi per frequentare Scuole prestigiose e come creare opportunità per i giovani.

L’Arcivescovo riconosce le difficoltà in atto nel trovare il lavoro per cui ci si è preparati, ma fa riferimento all’esempio dei padri che, nel secondo dopoguerra, seppero darsi da fare, trasformando la fisionomia, ad esempio, del Varesotto di cui egli è originario.

«La società e la politica, le Istituzioni italiane devono preoccuparsi di dare lavoro e di mettere a punto le professionalità, ma anche voi dovete darvi da fare, producendo qualità e ponendola sul mercato. Non pensate che, appena finite l’Università, avrete una scrivania e scriverete un articolo memorabile. Sviluppate piuttosto quella intraprendenza – tipica delle nostre terre -, intelligente e sobria che non si aspetta subito il guadagno, ma che crede nelle sue risorse e cerca di metterle a frutto. Siete giovani, bravi, intelligenti, preparati bene: cercate di cambiare questo mondo».

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