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Milano

L’Arcivescovo al Monzino: «Qui si capisce che è possibile sperare»

Nella visita al Centro cardiologico nel quarantesimo di fondazione monsignor Delpini è tornato sui temi della sua Lettera agli operatori sanitari: gratitudine, ammirazione, attenzione alla relazione con il paziente, desiderio di continuare a imparare

di Annamaria Braccini

30 Giugno 2021

«Il fatto che a Milano si sia realizzato un luogo di eccellenza per la cura vuole dire avere dato un grande contributo al bene comune. Io sono qui per celebrare 40 anni di servizio e per rivolgermi a una realtà che, in questo ultimo anno e mezzo, ha vissuto un momento particolarmente drammatico e di smarrimento». Sono le prime parole che l’Arcivescovo rivolge ai vertici e al personale sanitario del Centro Cardiologico Monzino Irccs (parte del Gruppo Ieo-Monzino), che festeggia i quattro decenni di fondazione.

Nell’Aula magna intitolata al professor Cesare Bartoletti – il famoso clinico che ebbe l’idea di creare il primo ospedale in Europa dedicato esclusivamente alla cura delle malattie cardiovascolari, poi realizzato grazie alla donazione del cavaliere del Lavoro Italo Monzino -, il saluto di benvenuto è porto dal direttore generale e sanitario della struttura, Luca Giuseppe Merlino. È lui che, per primo, fa riferimento alla Lettera «Dovrebbero farle un monumento», dedicata dall’Arcivescovo agli operatori sanitari, specificamente laddove lo scritto evidenzia la necessità di farsi ancora domande: «Non si finisce mai di porre domande, ma non ci sono sempre risposte, piuttosto vocazioni ad amare. Mi riconosco in questa logica, soprattutto dopo che il Covid ha fatto cadere molte certezze. «Realtà come il Monzino esistono proprio grazie al principio di sussidiarietà e, ancor più nel momento attuale, è importante ripartire da questo concetto assolutamente laico, anche perché spesso gli erogatori privati sono stati visti come un costo e non come un’opportunità per un servizio di natura pubblica. Ma ricordiamoci che lo stato assistenziale provoca la perdita di energie umane, con un’enorme crescita della spesa e della burocrazia».  

Sull’anniversario di fondazione del Centro – il motto recita «Da 40 anni ci prendiamo cura di ogni cuore» – si sofferma il direttore scientifico, Giulio Pompilio: «Oggi è un giorno importante e occorre riflettere dove siamo e dove vogliamo andare. Qui si fa ricerca, che è una parte estremamente rilevante del nostro lavoro. Questo Centro nasce da un atto non solo di generosità, ma di restituzione del cavaliere Monzino che, per quanto aveva ricevuto, chiese al professor Bartorelli di costruire un ospedale di alto livello per la povera gente di Milano, che non si poteva permettere cure di eccellenza: una realtà per offrire a tutti le possibilità di pochi». Come a dire, questa è la nostra storia e il nostro futuro. «La tecnica, anche se è necessaria, non basta, ci vuole un minuto in più per il rapporto umano e personale con chi arriva qui. Siamo il primo Centro cardiologico in Italia, ma se manca questo manca tutto», termina Pompilio, ricordando i programmi sviluppati con il Comune e il quartiere Pontelambro. In prima fila siede il parroco della vicinissima parrocchia Sacro Cuore, don Alberto Bruzzolo.  

L’intervento dell’Arcivescovo

Sulla Lettera – consegnata al termine ai presenti – si sofferma anche la Lectio del vescovo Mario che richiama anche l’altro suo scritto «Stimato e caro dottore», pubblicato il 18 ottobre 2019. Se allora si era rivolto ai medici, quella recente è una lettera di ringraziamento, dopo il Covid, rivolta a tutti gli operatori sanitari: «L’espressione “dovrebbero farle un monumento” è un modo di dire comune che indica la riconoscenza per un’opera preventiva, terapeutica, di accompagnamento che permette di vedere all’opera la società nel suo complesso. Si percepisce che quella sanitaria non è soltanto l’esercizio di una professione, ma una vocazione che suscita stupore perché dice qualcosa dell’umanità, andando oltre quello che è dato spesso per scontato. Il modo in cui si curano i malati, dice qualcosa di tutti noi: dice che è spontaneo dedicarsi alle persone. Quando parliamo dell’umanità, i luoghi comuni la banalizzano e quando parliamo della società vengono spese troppe parole amare. Guardando alla cronaca, si ha un’immagine grigia e inquietante dell’umanità, ma in luoghi come questo si capisce che vi è la possibilità di sperare e di ammirare uomini e donne. Il primo punto di ciò che ho scritto è per dire grazie e che è stupefacente il bene che vi è nell’umanità della quale io voglio parlare bene».

Poi, un secondo punto indicato dall’Arcivescovo: «Intendo raccogliere, da quello che intuisco della professione dell’operatore sanitario, alcuni messaggi: in primis che l’umanità si conosce con le mani – da quelle di chi fa le pulizie a chi interviene chirurgicamente – perché si toccano le persone. Nella cura dell’umanità ci sono anche i pazienti difficili, ma chi esercita la professione sanitaria può esercitare la pazienza e aiutare una persona malata, magari sgradevole, a far emergere ciò che è nascosto dietro la facciata, il meglio. Il periodo della malattia, come tempo di prova, può fare venire alla luce ciò che è nascosto nella vita di tutti i giorni». E, ancora, un’ulteriore ruolo prezioso degli operatori è quello di «facilitare i rapporti tra i degenti, propiziando il buon vicinato anche tra estranei che si incontrano in un reparto, a volte nella stessa stanza».

Da qui, la consegna: «Si deve comprendere il proprio servizio come un itinerario perché non si finisce mai di imparare», e non solo per l’incremento delle competenze, suggerisce: «In questo periodo il Covid ha imposto paure e limiti, ma auspichiamo che si continui a cercare per sconfiggere non solo il virus, ma anche tutte le altre patologie. È necessario alzarsi e andare, affrontando le sfide. La ricerca deve aver dentro la fiducia e, per crescere nella relazione di cura, il rapporto personale deve diventare un tema della ricerca, perché anche in questo contesto non si finisce mai di imparare».

Infine, l’indicazione a medici e personale di «avere equilibrio da coltivare per sé e la propria famiglia, ma anche per il bene complessivo della comunità in cui si vive, perché non siamo fatti per essere macchine, ma per vivere buone relazioni in famiglia, nel lavoro, nel riposo». In conclusione, torna l’accenno a porsi domande. «Sono il segno che siamo vivi, ma più la scienza progredisce, più deve diventare umile – come dimostra la storia esemplare del Monzino – perché più si sa e più si sa di non sapere. Il concetto della domanda e della risposta è troppo intellettualistico: le domande, in verità, sono un’invocazione e una vocazione ad amare», termina l’Arcivescovo, prima della visita ai degenti di alcuni reparti.  

 

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