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Preghiera a Milano

«La tragedia di Lampedusa:
l’imperativo è non dimenticare»

Monsignor Giancarlo Quadri, responsabile della Pastorale diocesana dei migranti, che in Santo Stefano ha organizzato una veglia per partecipare al dramma dei profughi: «Per operare secondo giustizia occorre convertire il nostro cuore in modo autentico». Scola: «Il nostro pianto si fa preghiera»

di Annamaria BRACCINI

8 Ottobre 2013

Abel è un giovane eritreo rifugiato in Italia, uno che, come si dice, “ce l’ha fatta” e che ha raccontato la storia della sua fuga di disperazione «dove nulla è stato razionale», tra tante altre vicende di speranza e dolore, in un libro. La “sua” pagina viene letta durante la preghiera in ricordo delle vittime di Lampedusa. E così la sua voce, attraverso quella di un padre gesuita, “parla” per tutti coloro che non hanno voce, che sono rimasti prigionieri del mare, fino a morirne.

È uno dei momenti più intensi della Veglia celebrata nella Basilica di Santo Stefano, che si riempie per intero, di milanesi e decine di uomini e donne di origine eritrea: due bandiere, l’eritrea e il tricolore, sono poste davanti ai banchi della prima fila. Monsignor Giancarlo Quadri, responsabile dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti della diocesi di Milano, cappellano della Cappellania dei Migranti – accanto a lui, tra gli altri, il vicario episcopale di Milano monsignor Carlo Faccendini, il direttore della Caritas don Roberto Davanzo, il presidente della Casa della Carità don Virginio Colmegna, i due cappellani della comunità eritrea a Milano -, legge il messaggio del cardinale Scola. «Il nostro pianto si fa preghiera.Nessuno di noi può chiamarsi fuori dalla tragedia di Lampedusa – scrive l’Arcivescovo- Il valore e la dignità della persona debbono essere posti a fondamento di ogni umana relazione e vengono ben prima di ogni diversità. Il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona domanda di essere promosso da ogni legislazione. All’autorità politica compete la retta regolamentazione del fenomeno dell’immigrazione. Chiediamo pertanto alle autorità italiane ed europee di collaborare con solerte decisione alla ricerca e all’attuazione di nuove ed equilibrate politiche per l’immigrazione. La Chiesa sia sempre pronta al primo intervento di accoglienza».

Qualcuno piange, qualcuno prega ininterrottamente in ginocchio, si proclama la Parola di Dio nel brano di Caino e Abele. Padre Bernardo Michael, cappellano degli Eritrei, significativamente richiama le parole dell’omelia di Papa Francesco pronunciata proprio a Lampedusa l’8 luglio scorso. Poi, soprattutto si prega, si fa silenzio, tutti insieme, senza distinzioni: sono presenti anche rappresentanti di altre Chiese cristiane e di altre religioni.

Le testimonianza portate stringono il cuore, in un dolore che pare quasi di poter toccare con mano. Monsignor Faccendini dice: «Alcuni anni fa mi sono recato in Eritrea, ho visto la vostra terra bella e desolata. Prego con voi perché il dolore e il pianto restino a lungo in noi. Sollecitiamo insieme le autorità italiane ed europee per nuove ed equilibrate politiche». Padre Giuseppe Trotta, gesuita, che appunto legge la storia di Abel conosciuto al Centro Astalli di Roma, chiede la forza, «anzi, la grazia di vergognarci tutti, come ci ricorda Papa Francesco, sapendo fare memoria, così come in ogni Eucaristia facciamo memoria del sacrificio del Signore Gesù. Diamo testimonianza che il sangue dell’innocente non va e non può andare perduto».

«Lasciamo piangere il nostro cuore», aggiunge monsignor Quadri che invita alla conversione, dopo che un canto giapponese e la preghiera di un monaco buddista hanno reso, se possibile, ancora più intensa quella espressione antica e sempre nuova, tratta dalla pagina di Matteo: “Chi accoglie voi, accoglie me e chi accoglie me, accoglie Colui che mio ha mandato».  La presenza di fedeli della comunità cattolica giapponese a Milano è particolarmente sentita, perché nella stessa chiesa, Santa Maria in Camposanto, ogni domenica si celebra l’Eucaristia: prima la comunità giapponese, subito dopo quella eritrea. «Il problema principale è non dimenticare. La Veglia vuole essere il segno di un cambiamento nell’anima capace di mutare la realtà che ci circonda. Qualunque cittadino può assumersi, dal basso, delle responsabilità. Pensiamo alle guerre: cosa significa chiedere di cessare i conflitti, se noi per primi non ne siamo davvero convinti? Parliamo di minori stranieri presenti in Italia: si vuole o no risolvere la situazione? Occorre coraggio, certo, ma se convertiamo il nostro cuore in modo autentico, penso che molte situazioni possano essere risolte o almeno migliorate secondo giustizia».

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