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Società

La periferia esistenziale:
soli, ma senza solitudine

Il sociologo Giuseppe De Rita: «Viviamo isolati, ciascuno per proprio conto, affezionati al nostro lavoro. Mentre essere soli è la porta per la solitudine, dunque per la riflessione e anche per la malinconia... È l’esempio più chiaro di quello che dice il Papa. Una difficoltà umana, profonda»

a cura di Riccardo BENOTTI

2 Aprile 2013
GIUSEPPE DE RITA CENSIS

Inginocchiato a terra, ai piedi dei suoi giovani. Uno scambio di parole, una carezza, il volto aperto e lo sguardo sorridente. Nel Giovedì santo, per sei volte, percorrendo la fila composta dai dodici ragazzi dell’Istituto penale per minori di Casal del Marmo, Papa Francesco si è chinato ieri con entrambe le ginocchia per compiere il gesto antico e servizievole della lavanda dei piedi.

Dalla fine del mondo al cuore della cristianità, dalle villas miserias di Buenos Aires ai penitenziari minorili di Roma. È un viaggio, quello intrapreso da Papa Francesco, che procede senza esitazioni dal centro delle sicurezze alle periferie della vita. A riflettere sul messaggio del Santo Padre, il sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis.

Periferie delle città e periferie del cuore: durante la Messa crismale Papa Francesco ha invitato i sacerdoti ad andare non soltanto nella periferia geografica ma anche in quella «esistenziale»…
Credo che ci sia un’attenzione del Papa a un cerchio ancora più intimo. L’attenzione alla periferia della città, alla periferia della povertà, alla periferia materiale è comprensibile a tutti. Così come è importante la periferia dell’esistenza, quella delle persone sole, dei malati, dei non autosufficienti, delle persone abbandonate. Ho l’impressione, però, che ci sia anche un richiamo a ciascuno di noi perché si abbia la capacità del cuore di guardarsi intorno e di amare gli altri per quello che significano per noi. Altrimenti resta soltanto un discorso ideologico: no alla povertà materiale, sì alla povertà spirituale. Qui, invece, c’è una questione che chiama in causa l’impegno personale ad aprirsi all’altro, comunque e dovunque. È un movimento che deve essere fatto dentro di noi.

Come si può guardare il mondo dalla periferia?
Noi siamo tutti centrati: su noi stessi, sulla nostra città, sulla nostra casa, sulla nostra professione, sulla nostra azienda. Tutta la dimensione personale degli ultimi 150 anni è stata all’insegna di questa centratura su noi stessi, una soggettività portata al massimo livello. Non si tratta soltanto dell’esaltazione dell’io ma anche dei luoghi in cui quell’io era nato. La cultura greca, cristiana e giudaica in primis. Se una persona si centra su se stessa, cercherà naturalmente le sue radici centranti. Invece, molto spesso, nella società di oggi sarebbe necessario dislocarsi, perché quando si differisce da se stessi è possibile vedere le cose in maniera diversa. Il punto di partenza, dunque, è uscire da se stessi. In questi giorni ho sentito la frase: «Certe volte mi trovo collocato non dentro me stesso ma fuori, perché dentro di me c’è Gesù». Se avessimo questa consapevolezza, se nella nostra auto-centratura lasciassimo tutto il posto che serve a Cristo e noi ce ne andassimo un po’ più in là, forse vedremmo meglio le cose. È un meccanismo dell’interior intimo meo. Il Papa parla al profondo, non alla mobilitazione generale.

Il Santo Padre chiede di essere presenti «dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni». Quali difficoltà esistenziali vive la nostra società?
La maggior parte delle persone è sola, ma senza solitudine. Viviamo isolati, ciascuno per proprio conto, affezionati al nostro lavoro. Mentre essere soli è la porta per la solitudine, dunque per la riflessione e anche per la malinconia, oggi siamo invece soli, ma senza solitudine pensata e vissuta. È l’esempio più chiaro di quello che dice il Papa. Una difficoltà umana, profonda.

«Uscire da se stessi per andare verso le periferie del mondo e dell’esistenza». È un impegno, quello proposto dal Papa, che interroga ogni persona…
Il Papa non invita soltanto ad andare verso il prossimo, ma ad annusare la gente, sentire l’odore delle pecore. In questo invito, io che non sono mai stato un grande teorico, ma un annusatore sì, mi ci sono ritrovato in pieno. Chi annusa, abitualmente, lascia il primato della teoria e della cultura alta per andare a vedere le cose per come sono. Andare a sentire l’odore delle pecore non è soltanto una pura valutazione morale o di condivisione, ma è un problema culturale. Non si capisce se non si annusa, non si comprende se non si è dentro le situazioni. Da fuori non esce una corretta comprensione della realtà.

Quella di Papa Francesco vuole essere una «Chiesa povera per i poveri»…
Un papato può essere compreso in base alla dimensione pastorale e organizzativa. Finora abbiamo visto una parte dell’aspetto pastorale e umano, ma, sul versante istituzionale, ancora non sappiamo nulla. Il vero punto di svolta sarà nelle decisioni istituzionali e organizzative che il Papa prenderà. Anche Giovanni XXIII, nei primi giorni del suo pontificato, aveva la fama di essere un bonaccione, un buon vecchio Papa di transizione. Poi ebbe l’intuizione del Concilio, che fu un’idea istituzionale per la Chiesa. Certamente questo Papa non potrà fare un nuovo Concilio, ma dovrà scegliere quale dimensione organizzativa dare alla Chiesa.