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11 settembre

La Grangia, quella “profezia” nel segno dell’accoglienza

Una tavola rotonda con l’Arcivescovo e il sociologo Maurizio Ambrosini avvia le celebrazioni per i 35 anni della casa di Monluè che offre ospitalità ai rifugiati. Il parroco don Bortolo Uberti ricorda la «scelta lungimirante» del cardinale Martini e descrive i successivi sviluppi fino a oggi

di Luisa BOVE

5 Settembre 2021

Tre giorni di festa alla Grangia di Monluè per i suoi 35 anni di attività accanto agli stranieri, in particolare i richiedenti asilo scappati dai loro Paesi per salvarsi e rifarsi una vita. Si inizia sabato 11 settembre con una tavola rotonda a cui partecipano l’arcivescovo Mario Delpini e il sociologo Maurizio Ambrosini. «A questo appuntamento – spiega don Bortolo Uberti, presidente dell’associazione onlus, nonché parroco di San Lorenzo in Monluè e San Nicolao della Flue – sono invitati in particolare volontari e operatori (di ieri e di oggi), abitanti del quartiere e tutti coloro che desiderano riflettere sul fenomeno dell’immigrazione e sulle sue prospettive». Al dibattito interverrà anche un ospite che porterà la sua testimonianza, quindi seguirà il confronto con i presenti.

La Grangia, voluta dal cardinale Martini, è stata una scelta lungimirante. Oggi più che mai…
Certo, è molto attuale, perché l’accoglienza è uno dei bisogni più importanti che si riscontrano anche oggi, una scelta quindi profetica. Non possiamo pensare di costruire una società e una città se non nell’inclusione, nel mettere insieme le diversità. Non solo viene riconosciuto un bisogno, ma una profezia. La città del domani sarà una città che avrà volti diversi, storie diverse, culture diverse e non potrà essere che così.

Cosa significa per lei raccogliere questa eredità?
Percepire un respiro di Chiesa e di vita sociale molto più ampio di quello ristretto negli ambiti del nostro normale ministero. Per me ha voluto dire rendermi conto come la realtà della migrazione è parte integrante del ministero di un prete e della vita di una comunità. Il fatto che la Grangia esista da 35 anni dice in maniera molto chiara che il fenomeno delle migrazioni non è un’emergenza, ma elemento costitutivo del vissuto di una città, di un Paese, di un continente.

Per le due comunità parrocchiali l’esperienza di accoglienza ai profughi richiedenti asilo che cosa rappresenta?
Anzitutto riconoscere un dono. La Grangia fa bene alle comunità cristiane del territorio perché non solo le ha aperte a un servizio di accoglienza, ma le ha aiutate a superare molti pregiudizi e chiusure, quindi ha fatto crescere la dimensione evangelica della comunità. La presenza di una realtà di accoglienza per migranti, per rifugiati richiedenti asilo, ha fatto maturare la comunità.

Le suore di Maria Bambina sono presenti fin dalla prima ora?
Sì, sono una presenza fondamentale. La Grangia è nata infatti con don Antonio Giovannini e con le suore di Maria Bambina. La loro è quindi una presenza significativa e dice, in maniera potente, che donne consacrate cristiane possono vivere insieme a uomini (per lo più musulmani), provenienti dai diversi Paesi. Forse non ci si pensa mai, ma il fatto che vivano sotto lo stesso tetto due realtà in apparenza agli antipodi è un segno forte, un segno profetico. Noi sappiamo le difficoltà che l’Islam ha nei confronti delle donne, però tra gli ospiti e la comunità di suore c’è una relazione profonda. La Grangia è come una famiglia e questo viene riconosciuto anche dalle istituzioni pubbliche.

La vostra associazione conta anche sull’impegno di tanti volontari…
Sono una presenza importantissima, credenti e non credenti, vengono dal territorio, dalla parrocchia, ma anche da Milano e da fuori città. Il loro ruolo, soprattutto per i più giovani, è quello dell’insegnamento della lingua italiana; per altri la collaborazione consiste nel preparare le cene e i momenti conviviali. La presenza dei volontari rende la Grangia non semplicemente un centro di ricezione e accoglienza, ma un luogo in cui i migranti sono ospitati e accompagnati a compiere il loro percorso. I volontari creano dinamiche di relazione familiare molto arricchenti per tutti.

La vostra festa coincide con la grave situazione in Afghanistan…
Questo ci fa riflettere su quanto sia attuale ancora oggi un lavoro di accoglienza e di sostegno alle persone nel cui Paese c’è un regime, una condizione di guerra o di crisi. Allo stesso tempo ci fa pensare che, come ho già detto, non possiamo immaginare di costruire una società, una città, senza condividerla con altri volti, storie, culture. Questo dice in modo chiaro che, su quanto sta accadendo in Afghanistan, anche noi abbiamo delle responsabilità e non possiamo essere indifferenti. Quindi anche la condivisione e l’accoglienza sono responsabilità di tutti. Non possiamo starcene fuori.

Come una famiglia

«La Grangia di Monluè, per come è strutturata, per la sua storia e per la presenza delle suore di Maria Bambina - assicura l’educatrice Marta Marzorati -, offre un’accoglienza “calda” e familiare, per questo le istituzioni tendono a inviarci persone con particolari vulnerabilità o fragilità (anziani, giovanissimi, persone psichiatriche o con problemi psichici, disabili, malati...). Da due anni abbiamo tra gli ospiti un uomo non vedente e un altro amputato a una gamba in seguito a un grave incidente. Si tratta sempre di storie complesse e sofferte».
Attualmente gli ospiti sono 21: la maggior parte dei posti letto sono riservati a persone che giungono attraverso il Servizio accoglienza integrazione (ex Sprar), altri tre invece sono autofinanziati e destinati a persone che di solito arrivano dal territorio, per lo più segnalate dalla Caritas. Molti sono originari dell’Africa subsahariana (Mali, Etiopia, Eritrea, Ghana, Gambia, Ciad, Nigeria, Senegal) e poi Iraq, Pakistan, Afghanistan, Siria, Venezuela e anche Libia, da cui arrivano neo maggiorenni che rappresentano una nuova categoria di ospiti.
«L’età degli ospiti è molto varia - continua l’educatrice -, si va dai diciottenni che arrivano direttamente dai centri per minori stranieri non accompagnati, al venezuelano che ha più di 60 anni; tanti hanno tra i 20 e i 30 anni, poi c’è qualche quarantenne e un siriano che supera i 50».