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“Il campo è il mondo”

Ferrari: «Milano deve
ritrovare la sua umanità»

«Perché il Cardinale ha scelto la parabola del Seminatore? Credo per lasciare che il Vangelo segnasse il confine rispetto al destino finale, salvezza o dannazione»

di Gian Arturo FERRARI Presidente del Centro per il libro e la promozione della letteratura

22 Settembre 2013

Devo confessare che a prima vista mi sono stupito della scelta del Cardinale di far perno per la sua Lettera pastorale sulla parabola del seminatore. È una parabola molto dura, escatologica e apocalittica. Nel campo crescono insieme il grano – frutto del buon seme sparso dal buon seminatore – e la zizzania – frutto di un’azione malvagia, subdola, segreta e notturna – del nemico, del diavolo. Bisogna aspettare, non estirparla subito, perché si rischierebbe di danneggiare il grano, e rimandare invece alla mietitura, cioè all’avvento del regno, al giorno del giudizio, la cernita finale. Dopo la quale la zizzania finirà nella fornace ardente, mentre i giusti, cioè il grano, splenderanno come il sole.

Una parabola poco compiacente, piuttosto divisiva, come si direbbe con linguaggio odierno. Ossia arcaica, di tono vetero testamentario, feroce. Perché il Cardinale l’ha scelta? Io credo l’abbia fatto per segnare un confine o, per meglio dire, per lasciare che a segnare il confine fosse l’Evangelo stesso. Di questo, vuol dire il Cardinale, stiamo parlando, del destino finale, della salvezza o della dannazione. Un’alternativa secca. Un aut aut. E infatti fin dalla prima lettura mi sono chiesto: «Ma io dove sto?». Io sono un battezzato, non praticante, che è stato credente, che è stato non credente e che adesso ha solo molti dubbi. Dove sto? Non ho la presunzione di essere grano, ma, francamente, non mi sento neanche zizzania. Non mi vedo circonfuso di luce, ma neanche a bruciare nella fornace ardente.

Poi ho capito che non sono solo io in questa condizione, che siamo in molti, che forse tutti sono un po’ così. E che forse il Cardinale proprio questo vuole far capire. A p. 63 infatti dice: «Tra coloro che frequentano ancora le chiese e coloro che hanno preso le distanze da esse, c’è una zona intermedia che va attentamente presa in considerazione». Questo perché, come ricorda a p.22, «la misericordia di Dio è paziente e non smette mai di sollecitare la risposta dell’uomo». Dopo averci fatto vedere con l’Evangelo il destino ultimo, il Cardinale insiste sul fatto che oggi, qui e ora, tutto è mescolato. Dice a p. 21: «Attenzione, questa mescolanza di apertura e chiusura è presente nel cuore di ciascuno di noi: grano e zizzania crescono insieme! In ogni uomo e in ogni situazione bene e male sono mischiati». Questa è dunque la condizione umana. Tant’è che anche i cristiani «vedono anzitutto in se stessi la zizzania» (p. 65).

Dunque la Lettera pastorale «è offerta a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà come strumento di riflessione sul senso, cioè il significato e la direzione, della propria vita» (p. 51). Noi viviamo, vuol sottolineare il Cardinale, in questo mondo, non nell’altro. Nell’altro tutto sarà chiaro, ma in questo – come dice san Paolo in un celebre passo – tutto è confuso, vediamo come in uno specchio, in enigma. Proprio perchè grano e zizzania sono mescolati e non si possono separare. L’invito del Cardinale insomma, rivolto a tutti, è quello ad accettare la propria condizione umana, che è per definizione non definita, confusa. E in questo anche io, con tutti i miei dubbi, non sono l’unico, non sono solo.

Il secondo grande tema della Lettera del Cardinale è, ovviamente, Milano. In Milano il Cardinale ha fiducia: una fiducia non di maniera e neppure coatta, obbligatoria per così dire, visto il ruolo del Cardinale medesimo. Si percepisce invece un rapporto personale e genuino. Al Cardinale Milano piace, si sente a casa sua, in Milano crede. E, soprattutto, «sono convinto – sottolinea – che Milano ha futuro, ha la sua originale parola da dire al paese nel cammino dei popoli non solo europei» (p. 65). La merita Milano questa fiducia? Non in un senso soggettivo e valutativo (si è comportata bene?), ma in un senso obiettivo, vi sono le condizioni reali perché Milano possa corrispondere a questa fiducia? Fuori dalla retorica, fuori dai facili compiacimenti, occorre dire che anche qui regna il dubbio, che anche qui il grano e la zizzania sono fittamente mescolati. Soprattutto sul piano culturale. La cultura, ricordiamocelo, non è un soprammobile e non è neanche un settore come tutti gli altri. Non è una fetta della torta, è il senso della torta e quindi la debolezza culturale è una crepa nelle fondamenta dell’edificio. Ora, non ci si può nascondere il fatto che la cultura milanese e la cultura concepita alla milanese sono deboli e indebolite.

Nel dopoguerra Milano è stata all’avanguardia di una visione in senso lato socialdemocratica della cultura. Le elite intellettuali – gli architetti, i teatranti, i pittori, gli scrittori, i professori – avevano un rapporto vitale con la società. Parlavano tra loro, parlavano ai cittadini comuni, si capivano e, in certa misura, si facevano capire. La cultura di ispirazione cattolica e quella di ispirazione marxista avevano in Milano un centro importante. Tutto ciò è finito – bisogna dirlo – con il ’68, che ha sortito l’effetto di spaventare, per così dire, la cultura milanese. Che si è come ritratta e un po’ nascosta dietro il paravento dell’industria culturale. Noi facciamo funzionare la macchina, sembrava dire. A quel che poi macina ci pensino altri.

Nel frattempo Milano ha cessato di essere la città che è stata per molti secoli – quella serie di cerchi concentrici come un bersaglio con al centro, esattamente al centro, il Duomo – per diventare quella che oggi si chiama una conurbazione, cioè un immenso agglomerato abbastanza informe. Non è (non è solo) un problema di dimensione. Esistono città molto più grandi e non così amorfe. È un problema di governo della dimensione. Un governo non solo politico, amministrativo, economico, ma, primariamente, culturale.

Quel che Milano forse non ha del tutto perso, ma che certo fa una gran fatica a trovare è il suo spirito. Il Cardinale lo sa e lo dice esplicitamente volgendolo in positivo, delineando una prospettiva futura. Legata all’Expo 2015, vista come il maggior fulcro su cui far leva per delineare la possibile rinascita culturale e fors’anche spirituale di Milano. «L’Expo 2015 – scrive – può, sottolineo può, rappresentare un’occasione perché la Milano del futuro trovi la sua anima» (p. 12). Tutta la sfida è in quel «può» che vuol dire due cose opposte (eh, il grano e la zizzania…), che è effettivamente possibile e che non è affatto detto che sia poi così. Ma la sfida vera è in quell’«anima», che non è solo la cultura, solo lo spirito, solo il sentimento religioso e neppure la loro somma. È una cosa viva, un guizzo vitale, una luce che illumina ogni cosa. La luce dell’umanità. Non sarà facile ridarla a Milano, ma provarci è l’impresa più bella.