Sirio 26-29 marzo 2024
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Milano

Di fronte alla morte siamo chiamati, da cristiani, a riconoscere che nessuno va perduto

L’Arcivescovo che, nella giornata dedicata ai Defunti, ha visitato tutti i Cimiteri cittadini, ha presieduto le Celebrazioni eucaristiche presso il Cimitero Maggiore e in Duomo. «Dove sono custoditi i nostri morti si impara a vivere»

di Annamaria Braccini

2 Novembre 2018
Delpini, Messa per i Defunti in Duomo

«Di fronte al lutto di una persona cara, a una morte inaspettata e tragica, al soffrire che sembra inevitabilmente condurre all’esito fatale, l’interrogativo che interpella Dio si esprime con il perché, che più di una domanda è un grido di protesta, un gemito di ribellione. In questo grido si immagina un dio che causa la morte o che potrebbe respingere la morte e non lo fa. O, forse, l’interrogativo si esprime con l’idea di non meritare la vita che è qualcosa di troppo bello e alto per creature cattive come siamo noi. Di fronte alla morte, l’interrogativo su Dio viene cancellato, perché è stato cancellato Dio».
Fa riflettere, come sempre, l’omelia che l’Arcivescovo offre ai fedeli riuniti in Duomo nella Celebrazione eucaristica per la Commemorazione di tutti i Defunti, da lui presieduta e concelebrata dai Canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale. Fa pensare perché dice, con chiarezza, tutto quello vediamo ogni giorno: la rabbia, l’ansia, il senso di ingiustizia che si prova quando qualcuno soffre e ci lascia. Anche quando «la domanda rivolta a Dio si esprime con l’amen, con un devoto riconoscere che l’esistenza è precaria», chiedendosi che senso abbia una vita che nasce per finire. «L’animo devoto coltiva la saggezza del vivere bene e del non fare del male, sottomettendosi poi all’enigma dell’incomprensibile. Oppure viene cancellato l’interrogativo stesso, perché è negata la morte. Si esclude cosa è il perché, l’unica domanda è il “come”: come evitare di soffrire e ritardare il processo. Un cuore batteva e ora non batte più, tutto qui: un po’ di chimica, un po’ di fisica».
Invece, è proprio di fronte alla morte che la parola di Gesù e la sua rivelazione suonano come una sfida, una condanna della morte stessa. «La risposta è questa: Dio non vuole che nessuno vada perduto, vuole che tutti siano salvati. Dio dà la vita e non la morte».
Lo ripete Gesù con insistenza – “Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato, che io non perda nessuno”, nota Monsignor Delpini – «perché sa quanto sia radicato nel pregiudizio umano che la morte venga da Dio».
Al contrario, «Dio chiama a condividere la sua vita e rende possibile, persino a creature fragili e precarie condannate dalla chimica e dalla fisica, vivere nella vita eterna, felice, trasfigurata, sottratta alla precarietà, vita nella pace, nella comunione con gli angeli e i santi, con tutti i nostri cari».
«È questo il Mistero che celebriamo, in questo giorno pensando ai nostri cari. Noi professiamo che Dio vuole salvarci e che, attraverso la morte del Figlio, ci ha dato il pane della vita eterna. Anche chi attraversa il deserto della vita e la prova del finire di questa vita precaria può rendersi conto della nostra dignità di figli di Dio. I cristiani non sono chiamati a essere ribelli, rassegnati, persone che perdono la stima di sé, che riducono tutto alla chimica; gente che confonde la devozione con la rassegnazione, gente che dice “non sono d’accordo con Dio” senza rendersi conto di quanto Dio fa».
Per questo la Celebrazione eucaristica è per tutti e per tutti i defunti, come aveva sottolineato poco prima, presso il Cimitero Maggiore, sempre l’Arcivescovo che, nella giornata ha sostato in preghiera in tutti i cimiteri cittadini. «Tutti quelli che sono qui sepolti sono i nostri morti e, infatti, questa Messa è per tutti i defunti, riconoscendo in noi una vocazione a non essere degli estranei che, talvolta, si fanno pericolosi gli uni per gli altri, ma formando una comunità dove ci si possa riconoscere. Una città così si concepisce come vita insieme».
«Credo che molti sentano il disagio di dover pensare alla morte e, così, non frequentano i cimiteri, preferiscono non pensarci, e tanti, pensandoci, ne sentono l’angoscia, come gente che vive con la consapevolezza di essere dei condannati a morte. Anche noi cristiani non possiamo evitare questo pensiero, ma sappiano che, pure nel dolore, possiamo alzare lo sguardo al cielo e sperare: la morte non è la fine di tutto, ma solo un doloroso e drammatico passaggio».
Il riferimento è alla Madonna alla quale è dedicata la restaurata pala d’altare della chiesa del Cimitero, benedetta dall’Arcivescovo stesso prima della Messa, dopo i gravi danni venuti dall’atto vandalico del 25 gennaio 2012 quando, per strappare la catenina d’oro alla venerata immagine di “Santa Maria alla Pietà in Camposanto”, il quadro subì gravi danni.
«C’è un luogo nella città dove ci si muove solo a piedi. Perciò si cammina adagio, si ha tempo per guardarsi intorno, leggere qualche scritta, notare qualche composizione floreale. Lo sguardo si ferma sulle tombe molto curate per ammirarle e su quelle trascurate, magari di personaggi importanti ma dimenticate. C’è un luogo della città in cui si può dialogare senza parlare, perché il dialogo non è solo scambiare chiacchiere ma è anche il ricordo di una frase che è diventata il testamento di una persona cara. Un dialogo perché vengano alla luce gli affetti, i dolori, anche il male fatto». Tutto questo significano i cimiteri «che, forse, nella città sono una presenza ingombrante», tanto che «alcuni pensano che sarebbe meglio disperdere le ceneri in qualche nessun luogo e dimenticare tutto».
È la tendenza all’individualismo che intende far sparire la morte, suggerisce Delpini. «La città, invece, in cui ci sono i cimiteri, è una metropoli che sa coniugare la fretta con la lentezza».
Evidente il messaggio: «Non possiamo vivere solo di corsa, abbiamo bisogno di momenti in cui ci sia dato di pensare, di fare emergere le domande e cercare le risposte, di camminare a piedi per ascoltare il silenzio. Dobbiamo vivere di rapporti, di parole, anche di rumori, ma necessitiamo delle parole che non si dicono e che rendono saggi. Occorre usare la mente per pensare alle cose veramente importanti e non a quelle che ci intruppano nell’ultima operazione commerciale, negli slogan più efficaci, nelle parole urlate».

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