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Monlué

«Accogliere non è omologare, ma creare cammini condivisi nella città e nella Chiesa»

Presso la “Grangia di Monluè”, voluta 35 anni fa dal cardinale Martini, l’Arcivescovo ha dialogato con il sociologo Maurizio Ambrosini nell’incontro “Prove di futuro. Accogliere per costruire il domani”

di Annamaria Braccini

13 Settembre 2021

L’immigrazione che non può essere sempre un’emergenza, l’accoglienza, l’integrazione che spesso corre il rischio di diventare omologazione e il desiderio di costruire, invece, cammini da condividere, una città inclusiva e armonica e la Chiesa dalle genti. E, poi, i luoghi profetici che hanno anticipato i tempi e nei quali i modelli virtuosi di inserimento sono già da anni realtà, come la “Grangia di Monluè”. Da dove è l’arcivescovo, che partecipa alla serata “Prove di futuro. Accogliere per costruire il domani”, a riflettere su tutto questo in un dialogo con il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini, docente alla “Statale” di Milano. E non poteva esservi un tema migliore per festeggiare i 35 anni della “Grangia” che, attualmente, nella canonica dell’antica parrocchia di San Lorenzo in Monluè, ospita 24 uomini, provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana, ma anche dalla Siria, dei quali 21 inviati dal Comune attraverso il Sistema Accoglienza Integrazione e 3 accolti tramite Caritas ambrosiana. Voluta nel 1986 dal cardinale Martini, la “Grangia” è ormai un punto di riferimento per l’accoglienza – di durata media dai 6 mesi ai 2 anni -, con la sua scuola di italiano, i percorsi di avviamento al lavoro, i 50 volontari che si alternano e le 4 suore di “Maria Bambina” che vivono stabilmente nella canonica in una dimensione familiare. Uomini musulmani e donne consacrate che condividono la vita di tutti i giorni, la cucina, l’abitazione. Insomma, un bel segno da ogni punto di vista, come sottolinea don Bortolo Uberti, presidente dell’Associazione “Grangia di Monluè” e parroco delle vicine San Nicolao della Flue e San Galdino che, introducendo l’incontro, osserva. «Questo non è un momento celebrativo, ma per rinnovare la coscienza di quanto stiamo vivendo e facendo in una prospettiva di ascolto di storie, guardando volti, condividendo cibi». Uno stile, questo, che trova piena rispondenza nell’intervento del vescovo Mario che, appunto, definisce Monluè «un’intuizione profetica, quando la percezione del fenomeno migratorio aveva già tracce macroscopiche, ma non quella dimensione che ha segnato i decenni successivi».

«Il tema delle migrazioni non può essere affrontato sempre come un’emergenza perché le migrazioni sono un modo di abitare il pianeta», prosegue l’Arcivescovo, proponendo alcune immagini e quelli che chiama «modelli di relazione». Modelli pericolosi come l’«arcipelago dei ghetti», dove le diverse «provenienze etniche convincono a creare isole nella città», cui si contrappongono immagini promettenti «come quelle della squadra di calcio o del coro dove si esalta la molteplicità delle voci nell’armonia, in modo che tutti si possano esprimere pur nelle differenze». Il riferimento è Elikya, l’attivissimo coro multietnico nato nel territorio della diocesi.

Poi, alcune parole-chiave indicate per descrivere i mutamenti in corso. «La prima è accoglienza, una forma di carità e di sensibilità che si costruisce sulla dinamica “tu non hai, io ho e quindi ti dò”. L’accoglienza che dice una relazione, necessaria in alcuni stadi emergenziali, ma a senso unico».
Inoltre, «le parole integrazione o inclusione, certamente interessanti, ma che fanno nascere il sospetto che significhino omologazione».

E, ancora, la parola «che è il programma della nostra Chiesa diocesana che deve diventare ed essere Chiesa dalle genti, una Chiesa unica che non vuole integrare per omologare, ma che è un popolo in cammino dove ciascuno porta qualcosa di suo che renda migliori tutti».
Da qui, la conclusione: «Vorremmo raccogliere la sfida che faccia della molteplicità delle origini una ricchezza condivisa, con una visone guidata dallo Spirito. Alcuni passi li abbiamo già fatti come nella “Grangia”. Noi milanesi che pensiamo di essere maestri in tutto, ma forse dobbiamo ricostruire alcune categorie di giudizio e di pensiero che si sono impoverite. Che concetto abbiamo del tempo o del convivere nei quei villaggi in verticale che sono i nostri condomini? Sentiamo tutto il disagio di una Milano troppo milanese e, come Chiesa, vogliamo affrontare questa sfida valutando la tradizione come un patrimonio che deve fruttare, camminando insieme».

Ma chi è veramente l’immigrato, si chiede il sociologo Ambrosini. «Colui che si sposta attraverso un confine e si ferma in un Paese per più di un anno, come viene definito dalle organizzazioni internazionali o qualcosa di più complesso? In realtà noi usiamo il termine immigrato per gli stranieri poveri. Potremmo dire sinteticamente che la ricchezza sbianca».
E che sia necessario sfatare tanti pregiudizi è evidente anche solo a guardare i “numeri” di un’immigrazione che, in Italia, è stabile da anni, per cui non esiste nessuna invasione; che riguarda più le famiglie che singoli uomini; che non è certo costituita da una maggioranza di musulmani, ma da cristiani di origine ortodossa provenienti dall’Europa dell’Est».

«Le statistiche parlano di 5mln e mezzo di immigrati – cui si aggiungono 400.000 irregolari -, dei quali solo il 5% del totale sono rifugiati e richiedenti asilo, anche perché l’85% dei rifugiati è accolto dai Paesi in via di sviluppo o da nazioni confinanti. A fronte di 270.000 rifugiati abbiamo più di 1 milione di persone di seconda generazione. 2 milioni e 350mila immigrati pagano le tasse perché lavorano in modo stabile». Come a dire, il contributo che offrono gli immigrati è più di quello che ricevono. Senza considerare che l’Italia rimane, comunque, sotto la media dell’Ue per l’accoglienza, ben lontana dalla Germania, unico Paese europeo che figura tra i primi 10 di quelli che accolgono di più in una classifica che vede ai primi posti la Turchia, la Colombia, il Pakistan e l’Uganda.

E se in Italia le provenienze sono soprattutto dalla Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine e gli africani, soprattutto dal nord del continente, si attestano solo al 5%, occorre chiedersi perché la percezione pubblica sia molto diversa. Perché, suggerisce Ambrosini, «sono poveri».
Come fare, allora, «buona accoglienza?».
«Liberandosi di alcuni pregiudizi come quello che gli immigrati non abbiano risorse e che, quindi, non possano fare nulla da soli perché così si cade nella trappola del “miserabilismo” e nell’insidia dell’aiuto asimmetrico. Occorrono, al contrario, il riconoscimento delle diversità, la scoperta delle risorse in loro, la promozione di relazioni paritarie, l’aiuto portato in modo emancipante. È una forma di intelligenza della solidarietà con tanti ritorni, come si vede nella “Grangia”. È necessaria, certamente, una governance mondiale, con canali legali e sicuri di ingresso e corridoi umanitari incrementati, ma dobbiamo anche farci domande più precise e adeguarci al mondo che è diventato più ampio e cosmopolita. Abbiamo bisogno di idee».

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