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«Per la diocesi di Milano è un debito di riconoscenza»

Parla mons. Luigi Padovese, Vicario apostolico dell'Anatolia e presidente della Conferenza episcopale turca

5 Giugno 2008

06/02/2008

di Pino NARDI

È molto soddisfatto per la decisione della diocesi di Milano di inviare in Turchia un proprio prete per continuare il lavoro di don Santoro. Anche perché lui è milanese e la notizia arriva a pochi giorni dal secondo anniversario dell’assassinio. Mons. Luigi Padovese è Vicario apostolico dell’Anatolia e presidente della Conferenza episcopale turca. Martedì con lui arriverà a Trebisonda mons. Vincenzo Paglia da Terni, che è stato compagno di don Andrea, per una celebrazione alla presenza anche della sorella e di buona parte delle persone che lavorano anche a Sud della Turchia. "Sarà un momento di incontro intorno alla figura di don Andrea".

Quale significato ha l’invio di don Lonati?
C’è la necessità di venire incontro non a una Chiesa giovane, ma a una delle più antiche. È come saldare un debito di riconoscenza verso le prime comunità cristiane dalle quali poi il cristianesimo si è irradiato anche a Milano, città che ha avuto rapporti strettissimi con l’Oriente: proprio nei giorni scorsi richiamavo al card. Tettamanzi il fatto che Tecla, Babila e altri santi provengono da qua.

Qual è il ruolo dei cristiani in Turchia?
Ricongiungersi al passato e dare testimoniaza in un mondo islamico. Mostrare non è un Paese solo musulmano, ma c’è anche una presenza cristiana: siamo una minoranza che deve essere riconosciuta e rispettata.

L’esperienza di don Santoro, l’invio del prete ambrosiano, vanno nel filone comune di attenzione per questa realtà…
Parto dal principio evangelico che se anche ci fosse un solo cristiano, bisognerebbe essere presenti. I cattolici sono pochi, ma ci sono altri cristiani di diverse confessioni che convergono nelle poche chiese che ancora esistono. Il nostro è un ecumenismo dal basso, ci ritroviamo come cristiani là dove ci sono luoghi di culto. Questo ci permette di affermare la nostra identità. Come abbiamo scritto nella lettera pastorale dei vescovi per l’Anno paolino, dobbiamo riconoscere che prima di essere cattolici siamo anzitutto cristiani.

La presenza di sacerdoti cattolici suscita nella gente la curiosità di conoscere la fede cristiana?
Voglia di sapere c’è, perché si sa poco di cristianesimo in Turchia. Uno dei servizi che offriamo è tenere aperte le chiese al pomeriggio per dare la possibilità, a chi lo volesse, di vedere e di parlare.

Come sono i rapporti con l’islam turco?
L’islam della Turchia è quanto mai articolato e pluralistico. Comunque i rapporti con le autorità religiose islamiche sono improntati a cortesia. Anch’io ho un buon rapporto con i muftì. Insieme l’anno scorso abbiamo organizzato un simposio sulla parola di Dio nel cristianesimo e nell’islam. Quindi ci sono attività che mi auguro continueranno. Però sono una goccia in un mare.

Ci sono allora i margini per un dialogo?
Sì, ci sono, soprattutto in Turchia perché c’è una parte dell’islam che ricerca il dialogo e l’armonia. Non dobbiamo lasciarci impressionare da chi fa tanto rumore, che non costituisce la maggioranza della popolazione. È poi anche vero che va cancellato un ricordo della storia che ha sempre presentato islam e cristianesimo come due blocchi contrapposti. Le diversità ci sono e non vanno taciute, perché non aiuterebbe il dialogo. Il fatto di ascoltarsi è estremamente positivo. Personalmente però non credo che si potrà mai arrivare a un dialogo teologico, perché le posizioni sono troppo differenti. Però c’è il dialogo della vita, della condivisione delle esperienze religiose.

E con le istituzioni quali sono i rapporti?
La Chiesa cattolica in Turchia formalmente non esiste, non ha alcun tipo di configurazione giuridica. Si deve partire da qui. Una delle nostre richieste è di poter aprire seminari. Finché viene in Turchia clero straniero si dà l’impressione che il cristianesimo sia un fatto importato, il che non deve essere. È importante aprire seminari, spero che ci venga data questa possibilità. Vanno adottati i parametri vigenti in Europa nel rispetto delle libertà di coscienza e di religione che un po’ stentano in Turchia. Tra le autorità politiche c’è la volontà, i passi sono piccoli però qualcosa si sta facendo, come per l’organizzazione dell’Anno paolino a Tarso.