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La maschera e il volto

La testimonianza di una giovane disabile alla vigilia della Giornata del malato

5 Giugno 2008

06/02/2008

a cura di Daniele ROCCHI

Giovani e sofferenza, giovani e dolore, temi che quasi mai vengono affrontati, ma che sono vissuti quotidianamente. Al riguardo, in occasione della XVI Giornata del malato (11 febbraio), ecco la testimonianza di una giovane disabile, Marta Zargar, 27 anni, laureata in Scienze dell’educazione e facente parte del Cvs, il Centro volontari della sofferenza.

«Sono inchiodata»: si presenta così, usando questa immagine, efficace, specie per chi ascolta al telefono, per descrivere la propria situazione di persona che vive da sempre in carrozzella. «Mi sono laureata da poco, i miei genitori sono separati, mio padre ha problemi di alcol, ne ho sofferto molto la mancanza. La mia disabilità, potrei quasi dire, è un corollario a questa situazione. Ora sono impegnata in uno stage di un anno presso l’Asl Rm E. Sono molto contenta, se non fosse per i problemi legati alle barriere architettoniche. Muoversi è davvero un’impresa. Ho un’assistenza domiciliare per quattro ore al giorno e un servizio taxi, ma non sempre».

Una vita fatta di difficoltà, ma anche di certezze, una su tutte, frutto di esperienza sul campo: «Il disabile non può essere considerato normale e in quanto tale va riconosciuto. Dalla propria disabilità egli può tirare fuori tutte le risorse che ha dentro di sé, le può potenziare solo se riconosce di avere un limite. Se non ci si riconosce questo limite tutto diventa difficile, ci si ritrova incapaci di crescere, incapaci di andare avanti superando gli ostacoli che la vita ti pone. Solo se la riconosci, la disabilità – e con essa la sofferenza – diventa risorsa. Non sopporto le persone che affermano che il disabile può far tutto. No, non è così. Il disabile può fare molte cose se ha avuto una rete familiare, innanzitutto, che l’ha sostenuto e incoraggiato».

«La sofferenza esiste e non bisogna averne paura. Conoscendo il limite che una malattia o una disabilità ti pone si può superarla o trovare dei modi per riuscirci. Io vivo la mia sofferenza anche con ribellione, perché sono una ragazza come tante. A volte mi alzo la mattina e non voglio assolutamente fare i conti con la mia condizione, ma sono costretta a farlo. Non c’è una ricetta, uguale per tutti, per affrontare la sofferenza, ma già il fatto che ti alzi la mattina e affronti la giornata è un modo per superarla. A piccoli passi. Inutile pensare al fatto che hai una malattia da cui non guarirai mai, non ne caverai un ragno dal buco».

«La fede indubbiamente conta. Ma non credo di essere il tipo di cristiano che dice sempre: “Signore ti ringrazio delle cose che mi accadono”. Il cristiano è una persona che crede in una vita eterna fatta di felicità e da questa convinzione deriva una serenità non umana. Se crediamo che c’è un Dio che ci ama così come siamo e che vuole per noi un progetto di vita vera, allora tutto assume una connotazione diversa. La vita non finisce qui. Se credessi che la vita finisca qui, mi sparerei, e lo dico in tutta sincerità. A volte con più forza, a volte con meno, sono ancorata a questa certezza. Di cammino da fare ne ho tanto, non sono una brava credente. La preghiera è fondamentale, se perdi il contatto con Dio allora si fa dura».

«Non saprei cosa dire a quei giovani che si trovano a che fare con la sofferenza in maniera inaspettata e imprevedibile. Alcune volte non mi trovo a mio agio davanti a persone che dicono di soffrire o che mi ricordano tratti della mia stessa sofferenza. La sofferenza non fa distinzioni e siamo tutti sulla stessa barca. Direi loro: “Prego per te, non so se mi crederai, ma questo è ciò che mi salva ogni giorno”. La sofferenza ti porta a indossare maschere continuamente, ma il cristiano è anche chi tribola senza sorridere e si offre come aiuto per spirito di servizio. La disabilità è risorsa e limite. Non ho nessuna pretesa di consolare o capire la sofferenza di altri come me. La sofferenza avvicina sani e malati, li fa sentire simili. Il disabile, come il malato, ha bisogno di affettività perché matura la convinzione di avere sempre bisogno e che da solo non ce la può fare. Abbiamo tutti, con le ovvie differenze, gli stessi tipi di ansie, di desideri: sposarsi, avere figli, costruirsi una vita. L’obiettivo è quello…».

«Ho ancora molta difficoltà ad accettarmi e mostrarmi per quella che sono, con le mie debolezze emotive, paure e difficoltà. Devo fare i conti con la superbia, con l’orgoglio, che accompagnano una giovane della mia età. La felicità si costruisce giorno per giorno, passo dopo passo».