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Etiopia, un Paese in cerca di identità

Si conclude in Etiopia il viaggio del direttore della Caritas ambrosiana in Africa. Due�le vocazioni che porta a casa dalla missione. Quella a operare per un mondo in cui l'impegno per il bene comune sia elemento qualificante di ogni pubblica amministrazione e la passione mai abbastanza sofferta per l'unità della Chiesa.

5 Giugno 2008

06/05/2008

di Roberto DAVANZO
direttore Caritas Ambrosiana

Un poster didattico molto diffuso in Etiopia descrive quel paese del est-Africa come caratterizzato da una straordinaria presenza di etnie diverse che arrivano a parlare fino ad 80 lingue. Situazione eccezionale, certo, ma non così unica negli stati africani nati spesso per decisioni assunte a tavolino tra i paesi europei che per secoli vi avevano svolto un ruolo di colonizzatori e i capi di talune tribù vincenti che alle potenze coloniali avrebbero assicurato leale collaborazione commerciale anche dopo l’indipendenza.

Èsufficiente, a questo proposito, consultare una qualsiasi cartina degli stati dell’Africa centro-orientale per capire come i confini furono tracciati con matita e righello, spesso incuranti della storia e dell’identità di tribù che si sono trovare d’improvviso a dover sottostare ad un nuovo sovrano deciso non si sa bene da chi, né come.

Ma piaccia o meno, questa è la realtà. Una realtà che richiede non governi dispotici indifferenti alle esigenze delle minoranze, bensì statisti illuminati – e potenze straniere ancora ingerenti – capaci di proporre un sentimento di unità nazionale in cui tutti si possano riconoscere affinché questa unità nazionale non significhi privilegi ed egoismi, ma equa e solidale distribuzione del benessere.

Quando questo non avviene (e nella storia africana non è avvenuto spesso) si pongono le premesse per l’accumulo di una tensione e di un odio che quando esplodono sono portatori di innumerevoli efferatezze. Così fu nella regione dei “grandi laghi”, così è stato pochissimi mesi fa nell’occidentalissimo Kenya.

Questa riflessione mi dà però lo spunto per un’altra serie di considerazioni.

Sul piano religioso l’Etiopia è approssimativamente così suddivisa: 40 % cristiani ortodossi, 35% musulmani, 20% protestanti, cattolici meno dell’1%.

Ciò che colpisce, al di là dell’esiguità della Chiesa cattolica, è quel 20% di protestanti suddiviso in un numero incalcolabile di sette e denominazioni varie. Si tratta di un fenomeno non solo etiope, purtroppo. Nella sola bidonville di Corogocho, alla periferia di Nairobi, si contano circa 50 chiese evangeliche.

Ma in tutta l’America latina si assiste a questa infinita proliferazione di sedicenti chiese dotate di una straordinaria capacità aggregativa e predicatori abilissimi nella raccolta fondi.

Forse non è politicamente corretto affermarlo, ma spesso viene da pensare che queste sette siano un vero e proprio flagello. Totalmente sganciate dalle grandi chiese nate dalla Riforma, completamente autoreferenziali, esse propongono un’esperienza di fede tanto esaltante emotivamente, quanto incapace di offrire strumenti di interpretazione e critica della realtà.

Accontentandosi di offrire una coinvolgente esperienza di gruppo, le sette distraggono i propri adepti dalla necessità di chiedersi quale sia la radice delle sperequazioni e delle ingiustizie che conducono a tollerare gli slum e le bidonville. Promettendo troppo facilmente il paradiso, distolgono dal guardare la terra e in nome di Dio finiscono per tradire l’uomo.

Dalla missione in Kenya e in Etiopia porto a casa due rinnovate vocazioni. Quella ad operare per un mondo in cui l’impegno per il bene comune sia elemento qualificante di ogni pubblica amministrazione: un bene che sia per tutti e per ciascuno, affinché tutti e ciascuno in quella città, in quel paese, si sentano a casa propria, riconosciuti e tutelati nei propri diritti.

La seconda vocazione riguarda la passione mai abbastanza sofferta per l’unità della Chiesa, per una fede capace di mostrare la via del cielo, ma che passa obbligatoriamente attraverso la strada degli uomini.