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Intervista

«Rifugiati, tagliare l’erba sotto i piedi ai trafficanti di esseri umani»

Dopo l’ultima tragedia del Mediterraneo, Giovanni Carrara, presidente del Consorzio Farsi prossimo, dal 1993 in prima linea su questo fronte, parla della necessità di un corridoio umanitario: «Nella nostra azione tocchiamo l'essenziale della vita umana»

di Francesca LOZITO

26 Aprile 2015
Portrait seasonal worker  ### Ritratto lavoratore stagionale

Persone di fronte a persone: quando si parla di accoglienza di rifugiati, la sintesi per dire che cosa caratterizza il senso dei rapporti che si creano è tutto qui. È l’umanità la chiave per comprendere cosa vuole dire accogliere. E sapere creare attorno a persone che stanno scappando dalla guerra un servizio che possa fare loro riprendere a vivere. È la convinzione di Giovanni Carrara, presidente del Consorzio Farsi prossimo.

Da quanto tempo Farsi prossimo lavora con i rifugiati?
I primi interventi risalgono al 1993. Allora Caritas Ambrosiana affidò alla Cooperativa Farsi prossimo la casa “Marta Larcher”, dedicata esclusivamente all’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Esiste ancora ed è in via Plinio 5 a Milano. Quella per noi allora fu un’assunzione di responsabilità, un segno emblematico dell’impegno con i richiedenti asilo. Dopo la caduta del Muro di Berlino, fino al 1990 l’Italia aveva la cosiddetta riserva geografica: accoglieva solo persone che provenivano dai Paesi dell’ex “cortina di ferro”. Solo con la Legge Martelli è iniziata la possibilità di richiesta di asilo politico, così come viene inteso oggi.

Rispetto a quegli inizi del 1993 oggi è tutto molto diverso. Cosa è successo nel frattempo?
L’esperienza fatta sul territorio continua. Con l’avvento dello Sprar (il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, istituito nel 2002 in base a una convenzione tra Ministero degli Interni e Associazione dei Comuni, ndr) sono proprio i Comuni a poter scegliere di farsi carico della problematica sul territorio. Questa è una risorsa, ma anche un limite, quando ci sono flussi superiori alle attese. Cosa che è avvenuta in forma costante a partire dall’emergenza Nordafrica del 2011. Oggi si profila una situazione simile.

Cosa fa il Consorzio nello specifico?
Tranne che nel territorio Monza e Brianza, è attiva ovunque con progetti Sprar. Ma anche con progetti per l’accoglienza gestiti in rapporto con le Prefetture. A questo va aggiunto un sistema complesso di accoglienza: accompagnamento lavorativo, formazione linguistica, inserimento professionale, inserimento abitativo.

Un percorso articolato. E lungo…
Sì, perché il periodo di attesa della concessione di asilo politico si è dilatato. Per questo alcune Prefetture hanno fatto un protocollo sperimentale che dà la possibilità di impegnare le persone, su base volontaria, in attività socialmente utili. Tenere impegnate le persone è importante.

Una delle critiche che vengono mosse, infatti, è quella secondo cui l’accoglienza possa diventare un parcheggio…
Per questo si sta cercando di creare un sistema di accoglienza complessivo e omogeneo, che garantisca diritti e doveri comparabili tra le persone accolte. Certo, nell’emergenza, il tentativo lodevole rischia di saltare.

Cosa pensa della possibilità di aprire un corridoio umanitario per indirizzare i rifugiati direttamente verso il Nord Europa (la maggioranza, infatti, punta a raggiungere Svezia e Germania)?
Partiamo dal fatto che queste persone arrivano in Europa attraverso organizzazioni criminali che trafficano in uomini. Allora sarebbe interessante individuare persone che hanno diritto all’asilo già in prossimità delle zone di guerra – come i rifugiati siriani in Giordania e Libano – e far sì che da lì non debbano transitare in Libia e Turchia per raggiungere l’Europa. Sarebbe un passo importante, perché taglierebbe l’erba sotto i piedi ai trafficanti più di altre forme di contrasto.

Farsi prossimo ogni giorno lavora con queste persone: con quali storie vi capita di entrare in contatto?
Abbiamo assistito a nascite avvenute nei centri, a persone con la salute gravemente compromessa salvate per un soffio, ma anche a situazioni drammatiche, in cui agli operatori del centro è toccato dire ad alcune persone che i loro familiari erano morti in mare. Questi episodi fanno capire che si tocca l’essenziale della vita umana. Di fronte a queste situazioni gli orpelli cadono e ci si confronta da uomini a uomini.