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Intervista

“Primavera araba”,
un futuro da costruire

In occasione dell’incontro internazionale dell’11 febbraio all’Auditorium San Fedele di Milano, parla Paolo Branca

di Pino NARDI

5 Febbraio 2012

Le immense manifestazioni di protesta della “primavera araba” hanno rappresentato una grande, storica novità. Le conseguenze sono state la caduta di regimi in modo più o meno cruento. Ma dopo la prima fase, soprattutto i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo si interrogano su quali saranno le prospettive future. Milano offre al dibattito un’occasione significativa con il grande convegno internazionale che si terrà sabato 11 febbraio all’Auditorium San Fedele. “Nel mare di Mezzo. Nord Africa-Europa. Paure, incertezze, speranze” il tema scelto. Ne parliamo con Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba all’Università cattolica, che modererà la tavolta rotonda.

Professor Branca, dignità, libertà e sviluppo rappresentano le bussole per il futuro di questi Paesi?
Era necessario che emergessero queste richieste, in forma autonoma e senza forzature come il progetto di “esportare la democrazia”. È accaduto, soprattutto grazie ai giovani (che sono spesso oltre la metà della popolazione) e al ruolo dei social-media. Abbiamo così scoperto finalmente che gli arabi sono esseri umani come noi e che desiderano le stesse cose. Ascoltarli e accompagnarli in questa nuova direzione rientra anche nei nostri interessi a medio-lungo termine.

Nei Paesi che hanno già votato sono prevalse le forze politiche di ispirazione islamica. C’è il rischio di una chiusura integralista?
Era inevitabile che si passasse da una prima fase monopolizzata da forze di opposizione già presenti sul terreno, e i rischi di un’involuzione non mancano. Probabilmente però si è passati a una fase nuova che non dovrebbe permettere né il ritorno del potere degli stivali (esercito), né l’avvento dei turbanti (religiosi).

Come sostenere le minoranze cristiane sempre più a rischio?
Invece delle pressioni, peraltro scarsamente efficaci, a favore delle minoranze sarebbe opportuno spingere per lo Stato di diritto, che tratti tutti i cittadini (e quindi anche le minoranze) su un piano di legalità e uguaglianza. Altrimenti il destino dei cristiani e di altri rimarrà una specie di moneta di scambio, gestita con modalità ambigue e ricattatorie, sia nelle relazioni internazionali sia nelle lotte interne ai singoli Paesi.

Le rivolte sono state davvero il frutto della diffusione dei social network?
Hanno contribuito enormemente, ma appunto questo ha dato alle “primavere arabe” la connotazione di rivolte o rivoluzioni “postmoderne”, capaci di mettere in crisi la credibilità e la legittimità dei regimi, ma ancora fragili nel costruire un’alternativa che possa raccogliere sufficienti consensi nella fase elettorale.

Si svilupperà un’informazione libera per un’opinione pubblica più matura in questi Paesi?
In parte è già accaduto: regimi screditati e in dissoluzione hanno perso il controllo dei media, ma la maturazione di un senso critico adeguato richiederà tempo.

Dopo le rivolte aumenteranno i flussi migratori verso l’Italia?
Sono cifre ancora limitate, nulla in confronto a ciò che potrebbe accadere fra 20 anni, quando la popolazione locale sarà quasi raddoppiata: l’Egitto di oggi ha più di 80 milioni di abitanti che potrebbero diventare 150… Se non staranno almeno decentemente a casa loro allora sì che ci troveremmo di fronte a esodi biblici che oggi si possono ancora prevenire.

Quale ruolo possono giocare l’Italia e l’Europa in questa fase di cambiamento nei Paesi del Nord Africa?
Essendo tra i principali partners economici di questi Paesi e i più direttamente interessati al loro sviluppo dovremmo avere politiche più incisive, ma le divisioni interne e la crisi non ci stanno aiutando in questo senso. Ancora una volta si raccoglierà ciò che si sarà seminato e la politica interessata in modo miope solo all’esito delle prossime elezioni non promette nulla di buono.