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La sparatoria a Palazzo Chigi

«Per comunicare si deve sparare?»

Il sociologo Mauro Magatti: «La consapevolezza ormai consolidata è che anche il gesto violento ha un significato, in quanto circola nei sistemi della comunicazione»

di Riccardo BENOTTI Agenzia Sir

29 Aprile 2013
Policemen stand near the area where a Carabiniere police officer was shot by an apparently disturbed man, on April 28, 2013 in Rome, outside the palazzo Chigi, the Italian Prime minister offices, while the country's new ministers were being sworn in. Two policemen were wounded, as well as a passerby, in the shooting. The attacker, named by Italian media as businessman Luigi Preiti, 49, was tackled to the ground by by police as witnesses fled the scene. AFP PHOTO / FILIPPO MONTEFORTE

«Sono un uomo disperato. Non odio nessuno. Volevo colpire loro, i politici, ma so che non ce l’avrei mai fatta». Sono le prime parole pronunciate da Luigi Preiti di fronte al pubblico ministero. Una confessione avvenuta a poche ore dalla sparatoria davanti a Palazzo Chigi, nel giorno del giuramento del governo Letta. Sui sampietrini di piazza Colonna, intorno alle 11.40 di ieri, il 49enne di origini calabresi ha lasciato 6 bossoli di cartuccia dopo aver svuotato il caricatore della pistola di piccolo calibro acquistata al mercato nero. Due i carabinieri feriti, insieme a una donna incinta lievemente contusa a un braccio. Il brigadiere Giuseppe Giangrande, colpito al collo, è ricoverato all’ospedale Policlinico Umberto I di Roma e rischia la paralisi a causa della compromissione del midollo spinale.

Per riflettere sulle dinamiche del gesto abbiamo intervistato Mauro Magatti, docente di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Il gesto solitario di un uomo disperato o la manifestazione di un sentimento comune?
Il disagio sociale è assai forte e diffuso. In Italia non abbiamo avuto manifestazioni di protesta significative e, in questo ambito, un atto disperato va tenuto in grande considerazione. Il gesto, poi, è stato costruito anche cercando un momento e un luogo simbolico. L’atto in sé, sebbene sia isolato, esprime senz’altro un malessere diffuso. L’uomo è disperato ma ci sono tante persone nelle stesse condizioni. Bisogna prendere sul serio la vicenda perché evidentemente è un segnale che ha un significato ben preciso.

Quale?
I problemi che ci sono dietro, il terreno su cui è nata questa determinazione assurda, è costituito da problemi collettivi. Non c’è nessuna giustificazione, la responsabilità personale resta. Allo stesso tempo, però, è importante comprendere che l’humus su cui questi eventi germogliano deve essere cambiato.

Mancanza di lavoro, difficoltà familiari, dipendenza dal gioco. Quella di Preiti è una biografia paradigmatica dei problemi che affliggono il Paese…
È un concentrato degli aspetti problematici della nostra vita. Si vede quasi plasticamente la pressione che si scarica sulla singola persona e, in alcuni casi, porta ad esplodere. Alcune dinamiche sociali gravano sulla vita del singolo con effetti dirompenti come il caso, totalmente diverso, di Oscar Pistorius. È come se ad un certo punto ci siano delle pressioni così pressanti, sulle spalle delle persone, da non essere più rette. Quasi ad essere in mezzo al mare e tenersi aggrappati a mani nude mentre imperversa la tempesta. È allora che alcune vite restano distrutte da queste dinamiche storiche e sociali.

Gli appelli alla piazza e le invettive contro i politici possono contribuire a esacerbare gli animi portando a simili reazioni?
In questi momenti, come è accaduto anche in passato, è utile ricordare a tutti coloro che hanno responsabilità nella scena pubblica che le parole sono importanti. È necessario riflettere prima di parlare perché, al di là di quelle che sono le intenzioni, la comunicazione spesso arriva laddove non si prevedeva. Le istituzioni e le forze politiche hanno capito che non si può più scherzare. È vero che si è trattato di un gesto singolo e non di una reazione organizzata ma la sostanza del problema è che il tempo è scaduto.

Anche i cattolici sono chiamati in causa da questi eventi…
È importante fare tutto quel che si può nelle comunità di vita. In qualche modo, ci troviamo tutti nella stessa barca. E allora la presenza nei luoghi della vita ordinaria e la capacità di non lasciare da sole le persone che stanno in difficoltà sono i primi atti concreti da compiere. Su un piano diverso, c’è poi la responsabilità politica. Anche nel governo Letta ci sono figure che provengono dalla radice cattolica, a testimonianza che questo mondo è capace di assumere responsabilità pubbliche.

Nel nostro Paese, segnato negli anni dal terrorismo e dagli attentati di mafia, gesti isolati sono un fenomeno poco diffuso…
Siamo dentro una trasformazione generale. Negli Stati Uniti d’America questi atti sono più frequenti e riflettono un processo di individualizzazione della società. In Europa lo sviluppo avviene normalmente in forma collettiva, benché non organizzata. Basti pensare alle periferie francesi o alle proteste che non hanno una vera e propria organizzazione alle spalle ma esprimono la rabbia del Paese. Bisognerà vedere se rimarrà o meno un fatto isolato per capire se si tratta realmente di un elemento che mutuiamo dall’esperienza statunitense. Ovviamente il processo di individualizzazione europeo ha caratteristiche diverse rispetto al modello Usa, ma ci sono punti di contatto.

L’esposizione mediatica è tra questi?
Un elemento comune, esplicitato dallo stesso Preiti, è proprio nella ricerca di evidenza mediatica. La consapevolezza che si è ormai consolidata è che anche il gesto violento ha un significato, in quanto circola nei sistemi della comunicazione. Mi chiedo: per comunicare, si deve sparare? E questo è un aspetto che fa parte del modo di vivere della nostra società.