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Testimonianze

Il servizio civile tra storia e attualità

Le esperienze di don Marco Recalcati, obiettore di coscienza negli anni Ottanta, e di Alice Lorandi, laureanda in servizio presso la Casa della carità di Milano

22 Maggio 2017
Don Marco Recalcati e Alice Lorandi

A 16-17 anni don Marco Recalcati, oggi cappellano al carcere di San Vittore, aveva già deciso di fare il servizio civile. «La prima scintilla è stata l’idea di svolgere un servizio più utile alla collettività rispetto al militare, che consideravo un po’ inutile pensando ai miei compagni che facevano le guardie o manovre fini a se stesse. Io invece volevo “sprecare” del tempo in un servizio dedicato alla persona», ricorda.

«Una grande scuola d’accoglienza»

Come ente di riferimento scelse la Caritas ambrosiana e si ritrovò a lavorare con i minori in difficoltà presso l’Istituto Beata Vergine Addolorata a Milano. «Mi rendevo anche conto che le povertà non nascono da congiunture casuali, ma sono conseguenze – dice don Recalcati -. Mi riferisco all’aspetto politico del servizio civile, quindi all’obiezione di coscienza. Non mi sento di sostenere le spese militari e l’industria bellica, ma sono per promuovere una cultura che valorizza la non violenza, il dialogo, l’incontro».

Il servizio civile per lui è stata un’occasione per «riflettere sull’aspetto educativo» e per «accostare i poveri». Seguiva i ragazzi delle medie nel doposcuola, giocava e stava con loro. Erano i famosi “tamarri” «che 30-40 anni fa nei nostri ambienti (adesso meno) venivano marginalizzati. Accoglierli in modo diverso per me è stata una grande scuola». Un’esperienza che «mi ha mandato in crisi sul fatto di una vita benestante, un po’ borghese. Anche questo mi ha portato a riflettere sulla dedizione agli altri, poi configurata come dedizione a Dio e al Vangelo».

Quando poi è diventato prete alla Comasina ha iniziato ad accogliere gli obiettori di coscienza. E se la Caritas proponeva 40 ore alla settimana di servizio civile, «a chi aderiva al nostro progetto ne chiedevamo 50, nell’ottica evangelica: “Ti viene chiesto di percorrere un miglio, tu fanne due”. Poi c’era la vita comune». I giovani al mattino assistevano gli anziani a domicilio e al pomeriggio si dedicavano ai ragazzi. «Ne sono passati diversi e con alcuni sono ancora in contatto».

Luisa Bove

«Mi aiuta a capire chi sono, ma non può essere un obbligo»

«Ho scelto di fare il servizio civile mentre preparavo la tesi perché ero indecisa sull’ambito da intraprendere: sto terminando la laurea in Servizio sociale e, avendo fatto il tirocinio per ora solo nell’ambito stranieri, volevo esplorarne anche altri». Alice Lorandi, 22enne laureanda alla Bicocca di Milano, ha un percorso di studi ben definito e le idee chiare sul tipo di lavoro che vorrà fare, che si tratti di stranieri o altre persone in difficoltà. Così, spiega, «ho scelto io di svolgere il servizio civile alla Casa della Carità. Qui faccio un po’ il jolly: dal centro d’ascolto, una volta la settimana, ai pomeriggi di sostegno scolastico e gioco con i bambini delle famiglie Rom, ospiti della Casa». Una decisione dettata, dunque, «principalmente da motivi professionali, più che dalla necessità di capire chi sono». Una scelta che serve? «Moltissimo. Aiuta a inserirsi nel mondo del lavoro, fa capire cosa vogliono dire il contratto, i ritmi del lavoro. E sono tutelata…  Poi, certo, si incontrano tante persone che ti cambiano. Ma questo succede dappertutto», riflette Alice.

Anche l’aspetto della motivazione è però fondamentale: «È stata una mia scelta andare alla Casa della Carità, sapevo già cosa mi aspettava». Quindi, sulla proposta di rendere obbligatorio per i giovani il servizio civile, Alice propende per il no: «L’esperienza aiuta a livello lavorativo, inizi a capire quali sono gli obblighi da rispettare e i diritti da richiedere; ma è anche vero che ci sono ambiti, come il mio, ai quali non si può obbligare. Qui devi venirci per scelta, sapendo cosa vai a fare».

Dunque il servizio civile non potrebbe essere visto solo come un primo approccio al mondo del lavoro? «No, perché davvero l’approccio cambia – risponde Alice -. Io sono arrivata pensando all’aspetto lavorativo e poi in realtà a livello personale sono cresciuta tantissimo, non me l’aspettavo. Se si permettesse di scegliere consapevolmente almeno l’ambito (alla possibilità di scegliere il “dove” ha accennato in effetti la stessa ministra Pinotti) ci potrebbe stare, ma non si può andarci per forza…».

Claudio Urbano