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Economia

Cooperazione, luci e ombre della riforma

Il caso delle Bcc che possono trasformarsi in Spa. A rischio i principi originari ma è giunto il momento di fare chiarezza tra ragioni fiscali ed etiche

di Nicola SALVAGNIN

3 Marzo 2016

Un fantasma si aggira tra i cassetti governativi e le aule parlamentari: la riforma del credito cooperativo, di quelle piccole banche disseminate sul territorio italiano che hanno spesso una storia centenaria e che sono rette dai principi cooperativi. Alcune di loro sono in difficoltà, c’è bisogno di una soluzione di sistema, che è stata individuata in una holding sovrastante che faccia da ombrello a quasi tutte.

Ma non è questo il punto dolente, quanto la volontà del Governo di inserire una deroga che concede alle banche di credito cooperativo (con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro) la possibilità di trasformarsi in società per azioni versando il 20 per cento della riserva indivisibile al fisco. In soldoni, significa che i 14 istituti più grandi – con un patrimonio netto aggregato di 4 miliardi di euro costituito al 90% appunto da riserve indivisibili – potranno abbandonare i principi mutualistici e approdare allo scopo di lucro. L’erario incasserebbe 720 milioni di euro, la cooperazione incasserebbe un pugno da ko quasi mortale.

Le riserve indivisibili nascono per capitalizzare piccole realtà che altrimenti farebbero fatica a raggiungere il mercato dei capitali. Il fatto di non distribuire utili, ma di tenerli a riserva (e se l’esperienza finisce, di destinarli al resto della cooperazione) garantisce agli stessi utili di non essere tassati. Ora, e solo a queste 14 realtà, si concederebbe la possibilità di incamerarli e trasformarli in capitale di rischio, con una tassazione che più di favore di così si muore. Così come morirebbe letteralmente lo spirito cooperativo che mette al primo posto il lavoro e non l’utile che produce: ma qui siamo nel campo delle opinioni, della politica.

C’è poi da considerare che quei patrimoni sono il frutto di intere generazioni di soci, che hanno sempre accettato questo sacrificio economico in nome di un ideale diverso. L’ultima generazione di soci tradirebbe tutte le altre e si intascherebbe il dividendo.

Ma il danno potrebbe essere ancora più grave per l’intero sistema se si concedesse pure la possibilità alle più piccole di aggregarsi entro 18 mesi appunto per agguantare la soglia e trasformarsi in Spa. Ma che senso avrebbero tante piccole banche trasformate in spa, in un momento in cui già quelle medio-grandi cercano di unirsi per restare in piedi? Una Bcc è quasi sempre una banca diversa anche nell’agire: localizzata su un territorio, pienamente inserita nello stesso, finalizzata a lavorare spalla a spalla con l’imprenditoria locale e a seguire il cliente quasi fisicamente. Questa è la sua natura e c’è bisogno di simili realtà, oltre ai grandi gruppi internazionali.

Per non parlare poi delle polemiche di stampo politico che una simile decisione si trascina, visto che dietro ci sarebbero soprattutto un paio di Bcc toscane interessate al grande salto. E, con l’indicazione geografica, abbiamo detto tutto.

Ma una simile legge, un enorme effetto positivo ce l’avrebbe di sicuro, se portata a termine però con clausole diverse: farebbe finalmente piazza pulita tra chi crede in certi principi, e chi li usa e se ne fa paravento. È ora che il mondo cooperativo si faccia un esame di coscienza e faccia comunque chiarezza al suo interno: non si è cooperativa per ragioni fiscali, ma etiche. Se l’etica è diversa, allora è giusto che anche le regole – e i trattamenti – siano diversi.